Categoria Protezione Umanitaria

La protezione umanitaria ancora al vaglio delle Sezioni Unite

Commento all’ordinanza interlocutoria n. 28316/2020, di Maria Laura Lepore,  Fausta Fanizzi.

L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica.


Corte di Cassazione, IV sezione civile, ordinanza n. 28316/2020


1. Evoluzione normativa della protezione umanitaria e profili di diritto intertemporale

Come è noto, la protezione umanitaria costituisce uno dei tre pilastri su cui si fonda il sistema pluralistico della protezione internazionale nell’ordinamento italiano, insieme al riconoscimento dello status di rifugiato e alla protezione sussidiaria. Tali istituti costituiscono attuazione del diritto di asilo previsto dall’art. 10, comma 3, Cost. (Cass. n. 26887/2013, n. 10686/2012).

In particolare, la protezione umanitaria è stata oggetto di una significativa evoluzione normativa, da ultimo culminata nel d.l. 21 ottobre 2020, n.130, poi conv. in l. 18 dicembre 2020, n. 173.

Già con il d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018, erano state apportate rilevanti modifiche, di fatto abolendo le norme che consentivano il rilascio di un permesso per motivi umanitari (ossia l’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998, vecchio testo, e l’art. 32, comma 3, d.lgs. n. 25/2008) e sostituendole con ipotesi tipizzate di permessi di soggiorno in “casi speciali”.

Tuttavia, alle domande per il riconoscimento della protezione umanitaria proposte prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, ha continuato a trovare applicazione, ratione temporis, il regime previgente, incentrato sulla condizione di vulnerabilità del richiedente asilo.

Come precisato dalle Sezioni Unite, tali domande dovevano, dunque, essere scrutinate sulla base delle norme in vigore al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, valutata in base alle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 avrebbe comportato il rilascio del permesso di soggiorno “per casi speciali”, introdotto dall’art. 1, comma 9, del d.l. n. 113 del 2018 (Cass., Sez. Un., n. 29459/2019).

La nuova disciplina introdotta nel 2020 ha parzialmente ripristinato la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 5, comma 6, t. u. imm., reintroducendo il richiamo agli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato, ma non quello ai seri motivi di carattere umanitario. Inoltre, all’art. 19 t.u. imm., ha ampliato le ipotesi di divieto di respingimento (non- refoulement) di cui al comma 1.1., ricomprendendo le ipotesi in cui lo straniero rischi di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti e quelle in cui vi siano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU. 

In sede di conversione del suddetto d.l., sono state introdotte ulteriori modifiche all’art. 19 t.u. imm., prevedendo che il divieto di respingimento operi anche qualora ricorrano gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato di cui all’art. 5, comma 6 e introducendo, tra le altre, una clausola che comunque consente l’allontanamento dal territorio nazionale dello straniero, quando ciò sia reso necessario da ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute, ma pur sempre nel rispetto della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo statuto dei rifugiati e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Tuttavia, la nuova disciplina, in vigore dal 22.10.2020, non trova immediata applicazione nei giudizi di cassazione pendenti alla suddetta data, avuto riguardo al tenore letterale dell’art. 15 di tale decreto  legge che, al primo comma, prevede che le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lettere a), e) ed f) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali e, al secondo comma,  sancisce che le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto avanti alle commissioni territoriali. 

Ne emerge come la nuova disciplina si applichi ai procedimenti pendenti dinanzi alle sezioni specializzate dei Tribunali al momento della sua entrata in vigore, con esclusione, peraltro, dei giudizi di rinvio. 

Ne consegue che, in relazione ai giudizi di cassazione pendenti, occorrerà avere riguardo alla data di presentazione della domanda amministrativa che, se anteriore al 5.10.2018, come nel caso dell’ordinanza di rimessione n. 28316/20, comporterà l’applicazione, ratione temporis, dell’art. 32 d.lgs. n. 25/2008 e dell’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286/1998; mentre, se proposta nel periodo ricompreso tra il 5.10.2018 e il 21.10.2020, determinerà l’applicazione del d.l. n. 113/2018.

Un primo profilo di criticità di tale regime intertemporale è dato, dunque, dal fatto che esso può dar luogo a trattamenti differenziati, a seconda della data di presentazione della domanda amministrativa e dell’organo giudiziario davanti al quale è pendente il procedimento: da qui la prospettazione di interpretazioni alternative del suddetto art. 15, volte ad eliminare tali disarmonie applicative.

2. La giurisprudenza di legittimità e la nozione di “vulnerabilità”

In dottrina e giurisprudenza, quanto al regime, applicabile ratione temporis, di cui agli artt. 32 d.lgs. n. 25/2008 e 5, comma 6, d.lgs. n. 286/1998, è stata sottolineata la natura residuale e atipica della protezione umanitaria, volta a ricomprendere tutte quelle situazioni non tipizzate, da individuare sulla base di una valutazione caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), il richiedente si trovi in situazioni di vulnerabilità tali da non consentirne l’espulsione 1.

In tal senso, la protezione umanitaria è stata definita in dottrina come istituto di chiusura dell’intero sistema di tutele dello straniero, posta in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche “maggiori”, ossia il riconoscimento dello status di rifugiato e la protezione sussidiaria2.

L’interpretazione del concetto di vulnerabilità, in tema di protezione umanitaria, inizialmente condotta dalla Corte di legittimità su una linea prudente, è giunta ad un’estensione della fattispecie con la sentenza del 23 febbraio 2018, n. 4455 3, che ha aperto ad una concezione allargata della vulnerabilità del migrante. 

Oggetto della valutazione – afferma la Corte – «la situazione oggettiva del paese di origine del richiedente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Tale punto di avvio dell’indagine, è intrinseco alla ratio stessa della protezione umanitaria, non potendosi eludere la rappresentazione di una condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani che abbia giustificato l’allontanamento». L’operazione comparativa va, dunque, effettuata con riferimento all’inserimento sociale nel Paese di accoglienza, anche se non risulta sufficiente la semplice allegazione di un’esistenza migliore nel paese stesso, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessario, in concreto, «verificare la condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili»4.

Si tratta di «una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e cui egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (ai sensi dell’art. 2 della Costituzione)». Invero, tale valutazione deve essere operata considerando globalmente e unitariamente i singoli elementi fattuali accertati, e non in maniera atomistica e frammentata.

Riguardo al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, la Suprema Corte ha, poi, affermato che esso «può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale quale quello eventualmente presente nel Paese d’origine idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili». 

Le pronunce successive hanno, in linea di massima, seguito le indicazioni fornite, con esiti alterni in base alla considerazione che l’elevato grado d’integrazione socio-lavorativa riscontrato non è stato ritenuto sufficiente all’accoglimento del ricorso, avendo l’altro estremo dell’accertamento portato a escludere la vulnerabilità nel Paese d’origine5

Dopo l’intervento delle Sezioni Unite, con la sentenza n. 29459/2019, ricorrente è stata l’affermazione per cui, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria è, in particolare, necessario che il richiedente fornisca elementi idonei a far desumere che il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza6.

Alcune decisioni hanno introdotto il c.d. principio di “comparazione attenuata”, concettualmente caratterizzato da una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, che impone un peculiare bilanciamento tra condizione soggettiva del richiedente asilo e situazione oggettiva del Paese di eventuale rimpatrio. In altri termini, quanto più  risulti accertata in giudizio una situazione di particolare o eccezionale vulnerabilità, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il “secundum comparationis”, che si concreta nella situazione oggettiva/effettiva del paese di rimpatrio, con esclusivo riferimento alla comparazione del livello di integrazione raggiunto in Italia e dalla valutazione della «privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale»7

Di rilievo è poi la sentenza n. 23720/2020 della Corte di Cassazione, che appare come la pronuncia che in parte anticipa le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione. 

Tale sentenza ha, anzitutto, operato una ricostruzione ad ampio spettro della nozione di vulnerabilità alla luce dell’art. 8 CEDU, sottolineando che la giurisprudenza della Corte EDU pone a carico dello Stato un obbligo positivo in merito al rispetto effettivo della vita familiare, tanto che, ove sia accertata l’esistenza di un legame familiare, lo Stato deve agire in modo da permettere a questo legame di svilupparsi. 

Di qui la conclusione che «un’ingerenza nell’esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare è quindi compatibile con il disposto dell’art. 8 CEDU solo se persegue uno scopo legittimo e possa ritenersi necessaria, in ragione di un bisogno sociale imperioso e in funzione di una proporzionata soddisfazione del legittimo scopo perseguito. Il giudice del merito, nel valutare la situazione di vulnerabilità dello straniero alla stregua di un simile obbligo internazionale, era perciò chiamato a prendere in esame non solo l’esistenza e le caratteristiche del rapporto familiare, ma anche il ricorrere di un bisogno sociale necessario, siccome volto a perseguire uno scopo legittimo, e proporzionale, cioè non eccessivo sul piano personale rispetto agli scopi perseguiti, che, all’esito di un bilanciamento fra interessi concorrenti, ostasse al riconoscimento della forma di tutela minore richiesta. Nell’effettuare un simile bilanciamento il giudice del merito doveva tener conto, tra l’altro, di fattori quali la portata del danno che avrebbe subito effettivamente la vita familiare in caso di rimpatrio del migrante e l’importanza dei legami esistenti nello Stato contraente, da un lato, e il controllo dell’immigrazione o considerazioni di ordine pubblico che avessero fatto propendere per l’esclusione, dall’altro». 

Sempre in tema di valutazione comparativa, quanto alla rilevanza della condizione di povertà, per esempio, si registra un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo un indirizzo giurisprudenziale, ai fini dell’accertamento della condizione di vulnerabilità del richiedente, all’esito della valutazione comparativa suddetta, la condizione di povertà del paese di provenienza può assumere rilievo solo ove si traduca in una condizione di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il richiedente asilo si troverebbe esposto ove rimpatriato, con conseguente rischio di sottoporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali8, ovvero in un’assoluta ed inemendabile povertà generalizzata presso alcuni strati della popolazione o di alcune tipologie analoghe a quelle del ricorrente, con conseguente impossibilità di sostentamento9.

Secondo un altro orientamento, non è sufficiente la mera allegazione della situazione di grave difficoltà economica e sociale in cui il richiedente verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico, posto che non è ipotizzabile un obbligo dello Stato italiano di garantire i parametri di benessere economico e sociale a cittadini stranieri, salvo che essa raggiunga la soglia della carestia e purché tale accertamento sia compiuto sulla base di fonti attendibili ed aggiornate. Ne consegue che le dedotte ragioni di solitudine e di indigenza economica, in caso di rimpatrio, non possono essere poste a fondamento del rilascio del permesso per motivi umanitari, in quanto non integranti una grave violazione dei diritti umani.

Quanto ai motivi di salute, ancora,  la situazione di vulnerabilità del richiedente non può essere astrattamente esclusa sulla base del mero accertamento dell’impossibilità di rimedi terapeutici per la grave malattia denunciata, senza che il giudice valuti anche la possibilità per il richiedente, in caso di rimpatrio, di essere posto nelle condizioni di godere dei diritti fondamentali  in relazione sia alle condizioni di vita del Paese di provenienza, sia alle limitazioni derivanti dalla malattia10.

3. Vita familiare allargata e vita privata

3.1 Il diritto al rispetto della «vita privata» quale identità personale, lo sradicamento e l’art. 8 Cedu

La situazione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni necessarie per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

La nozione di «vita privata», come elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, è sicuramente molto ampia, senza pretese di esaustività, e comprende l’integrità fisica e morale della persona, espressione delle numerose sfaccettature dell’espressione della personalità di un individuo. Senz’altro, il diritto al rispetto della «vita privata» implica che ciascuno possa stabilire, in sostanza, la propria identità su di un territorio, censendo così il suo “radicamento”. 

L’identità di un individuo involge diversi aspetti e si compone di molteplici elementi, tra cui sono ricompresi, ad esempio, il nome o i profili che si riferiscono al diritto all’immagine. Rientra nell’ambito del c.d. margine di apprezzamento, dei singoli Stati contraenti, valutare il giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 e il diritto alla libertà di espressione e di stampa di cui all’art. 10. 

Elemento dell’identità di ciascuno, attinente, dunque, all’ambito della “vita privata” è stato ritenuto anche l’accertamento, nel diritto interno, del legame di filiazione rispetto al padre biologico e, in particolare, del «legame di filiazione tra minori nati all’estero con il metodo della surrogazione di maternità ed i genitori c.d. “intenzionali”». 

Il diritto alla propria identità include, conseguentemente, anche il diritto di acquisire una particolare cittadinanza e i diritti di successione nei confronti dei genitori c.d. “intenzionali”. Non per nulla, anche il diritto del figlio a conoscere le proprie origini trova fondamento nella nozione di «vita privata».

È stata, altresì, ritenuta attinente all’ambito della vita privata, la determinazione dei diritti residui (es. di visita, di informazione) del genitore biologico che abbia prestato il consenso irrevocabile all’adozione del proprio figlio, in rapporto ai genitori adottivi e allo stesso figlio biologico, in quanto concernente una parte importante dell’identità della madre biologica. 

Tutti questi elementi possono concorrere a fondare il giudizio sul radicamento dello straniero sul territorio italiano. A ben vedere, la questione posta dall’ordinanza di rimessione n. 28316/2020 riguarda proprio il rilievo da attribuire all’elemento “integrazione sociale” ai fini dell’accertamento della condizione di vulnerabilità, alla luce dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza della Corte EDU. In particolare, ci si chiede se la vulnerabilità possa scaturire dallo “sradicamento” del cittadino straniero che abbia trovato nel Paese di accoglienza una stabile condizione di vita, con riferimento non solo all’inserimento lavorativo, ma a tutti gli ambiti relazionali rientranti nell’alveo applicativo dell’art. 8 CEDU.

Al fine di analizzare la questione posta dall’ordinanza di rimessione, occorre, dunque, muovere dal disposto normativo dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU.

Quanto ai criteri delineati dalla suddetta giurisprudenza in relazione ai migranti stabiliti, la Corte, nella sentenza 14 febbraio 2019 Narjis c. Italia, 41, ha affermato che non tutti gli immigrati stabilmente insediati, indipendentemente dalla durata della loro residenza nel paese da cui dovrebbero esser espulsi, hanno necessariamente una «vita famigliare» nel senso dell’articolo 8. Tuttavia, dal momento che l’articolo 8 tutela anche il diritto di allacciare e intrattenere legami con i propri simili e con il mondo esterno, e comprende a volte alcuni aspetti dell’identità sociale di un individuo, si deve accettare che tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono faccia parte integrante della nozione di «vita privata» ai sensi dell’articolo 8. Ne consegue che, indipendentemente dall’esistenza o meno di una «vita famigliare», l’espulsione di uno straniero stabilmente insediato si traduce in una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata. 

Nella stessa sentenza, la Corte rammenta anche che le autorità nazionali godono di un certo margine di apprezzamento per pronunciarsi sulla necessità, in una società democratica, di una ingerenza nell’esercizio di un diritto tutelato dall’articolo 8 CEDU e sulla proporzionalità della misura in questione rispetto allo scopo legittimo perseguito. La Corte è dunque competente per decidere in ultima istanza sulla questione se una misura di allontanamento di una persona possa conciliarsi con l’articolo 8 e, in particolare, se sia necessaria in una società democratica, ossia giustificata da un bisogno sociale imperioso e proporzionata allo scopo legittimo perseguito11

Peraltro, nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che non vi fosse stata violazione dell’art. 8, in considerazione del fatto che lo straniero aveva commesso gravi e ripetuti reati e che, nel bilanciamento tra le esigenze di salvaguardia dell’ordine pubblico e il rispetto della vita privata, dovessero prevalere le prime.

Nella sentenza Üner c. Paesi Bassi12, la Corte ha delineato i criteri che devono guidare i giudici nazionali in tali cause: la natura e la gravità del reato commesso dal ricorrente; la durata del soggiorno dell’interessato nel paese da cui deve essere espulso; il tempo trascorso da quando è stato commesso il reato e la condotta del ricorrente durante tale periodo; la nazionalità delle varie persone interessate; la situazione famigliare del ricorrente e, se del caso, la durata del suo matrimonio, e altri fattori che attestano l’effettività di una vita famigliare all’interno della sua unione; la questione se il coniuge fosse a conoscenza del reato all’epoca della creazione del legame famigliare; la questione se dal matrimonio siano nati dei figli e, in tal caso, la loro età; la gravità delle difficoltà che il coniuge rischia di incontrare nel paese verso il quale il ricorrente deve essere espulso; l’interesse e il benessere dei figli, in particolare la gravità delle difficoltà che i figli del ricorrente possono incontrare nel paese verso il quale l’interessato deve essere espulso; la solidità dei legami sociali, culturali e famigliari con il paese ospitante e con il paese di destinazione.

Tali criteri sono ribaditi nella sentenza Hamidovic c. Italia, 4 dicembre 2012,  in cui la Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 8 proprio in applicazione di detti criteri, rilevando, in particolare, che il reato per cui la ricorrente era stata condannata non fosse di natura tale da essere qualificato “grave” ai sensi della giurisprudenza della Corte; che la ricorrente, residente in Italia dall’età di dieci anni, si era sposata in questo paese  e da questa unione erano nati cinque figli, e che tutta la famiglia aveva vissuto senza interruzione in Italia.

Diversa è la situazione dello straniero di cui sia stato disposto il rimpatrio e che sia però privo di un titolo legale di residenza. In questa seconda ipotesi, infatti, non vi è alcun inadempimento di un obbligo negativo da parte dello Stato, perché nessuna norma della Convenzione impone agli Stati di accogliere qualunque cittadino straniero e di garantirgli un titolo di soggiorno.

Nella sentenza 08.04.2008, caso Nnyanzi c. Regno Unito, per esempio, la Corte EDU ha ritenuto che non vi fosse violazione dell’art. 8 CEDU, posto che la ricorrente non era una migrante stabilita e non aveva mai ottenuto il permesso di soggiorno.

Secondo la Corte, infatti, in un bilanciamento tra le esigenze di tutela della vita privata e le esigenze di controllo pubblico sui flussi migratori, il rifiuto di asilo non integrava una violazione dell’art. 8 CEDU.

Vi è, tuttavia, da rilevare come, in tempi recenti, sia stata superata la rigida dicotomia settled migrants – non settled migrants, rimettendo agli Stati la valutazione caso per caso circa le potenziali violazioni dell’art. 8, anche nei confronti del richiedente asilo13.

Tuttavia, analizzando tali pronunce, si rileva come la Corte continui a riconoscere la violazione dell’art. 8 in ipotesi del tutto peculiari, come quelle cui si faceva cenno in precedenza. 

3.2 Il diritto al rispetto della «vita familiare»: i genitori singoli con figli minori

La presenza di un legame familiare e soprattutto la presenza di figli minori continuano a costituire un elemento decisivo al fine di valutare il grado di integrazione14.

La Corte Edu ha elaborato, infatti, una nozione di «vita familiare» più ampia di quella tradizionale, attribuendo agli Stati contraenti la facoltà di differenziare, in relazione ai diversi modelli della stessa, le varie forme di tutela. 

Il concetto autonomo di «vita familiare» include, in primo luogo, i coniugi nonché i figli legittimi dal momento della loro nascita ed a prescindere dal requisito della «coabitazione». Relativamente al rapporto tra ciascun coniuge e la prole, la «vita familiare» persiste anche nel caso di scioglimento del matrimonio e di affidamento dei figli ad un solo genitore. 

Il concetto di «vita familiare» include anche la filiazione naturale, essendo il rapporto familiare riconnesso solo al fatto della nascita, anche in assenza di convivenza tra i genitori. Difatti, anche la filiazione adottiva costituisce «vita familiare» ai sensi dell’art. 8, che risulta altresì applicabile allorquando persista un legame familiare meramente «di fatto» (una «vita familiare progettata», oltretutto, non è stata completamente esclusa in tale ambito applicativo). In particolare, nella nozione di «vita familiare», rientrano anche i rapporti di fatto tra partner di diverso sesso, rilevando, a tal fine, indici quali la durata del rapporto, la coabitazione e la presenza di figli. Pertanto, anche la filiazione mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita ha fatto da corollario alla «vita familiare». 

Il concetto di «vita familiare» include, infine, anche la parentela tra nonni e nipoti, zii e nipoti, purché – si ripete – venga provata l’esistenza di legami personali affettivi (come, per esempio, la coabitazione o le visite frequenti). 

Peculiare, in questo senso, la decisione della Cassazione n. 22832/2020 riguardante il legame affettivo familiare dello straniero con altra richiedente la protezione e con la figlia avuta da quest’ultima, oltre che il proficuo percorso di integrazione sociale e lavorativa intrapreso. La Corte, inizialmente, non ignora che in alcune precedenti decisioni la questione è stata risolta nel senso della insufficienza della qualità di padre convivente di un minore presente sul territorio italiano al fine di giustificare la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Evidenzia però, in seguito, come l’art. 2, comma 11, lett. h-bis) del d.lgs. n. 25 del 2008 definisca le “persone vulnerabili”, includendovi, oltre ai minori, ai minori non accompagnati, ai disabili, agli anziani, alle donne in stato di gravidanza, alle persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, alle vittime di tratta di esseri umani, alle persone che hanno subito stupri, torture o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, alle vittime di mutilazioni genitali, anche i “genitori singoli con figli minori”. Secondo la Corte, in particolare, non si ravvisa alcuna ragione formale che giustifichi la conclusione per la quale il rimedio di cui all’art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 dovrebbe mettere fuori gioco la normativa in materia di permessi per motivi umanitari, visto che riposa su presupposti diversi e protegge interessi diversi.

Nel quadro dell’art. 8 della Cedu, la nozione autonoma di vita famigliare si sostanzia nel diritto di vivere insieme affinché i relativi rapporti possano svilupparsi normalmente e i membri della famiglia possano godere della reciproca compagnia. In linea di principio, in presenza di un legame familiare con un minore, lo Stato deve agire in maniera da consentire lo sviluppo di tale legame e deve istituire garanzie giuridiche che rendano possibile l’integrazione del minore nella sua famiglia dal momento della nascita o, anche, successivamente.

Da un punto di vista sostanziale, l’art. 8 della Cedu protegge l’interesse alle relazioni familiari affettive, a prescindere dal legame matrimoniale, come interesse del singolo e non esclusivamente del minore, per cui la prevalenza dell’interesse del minore non significa sic et simpliciter escludere l’esistenza di una posizione soggettiva del genitore.

4. Conclusioni

Alla stregua di tali rilievi, le Sezioni Unite, investite della nuova questione di particolare rilevanza, potranno esprimersi sulla configurabilità del diritto alla protezione umanitaria, nella vigenza dell’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 ed in continuità con la collocazione nell’alveo dei diritti umani inviolabili ad esso attribuita dalla precedente pronuncia n. 24159 del 2019, nel caso in cui sia stato allegato ed accertato il “radicamento” effettivo del cittadino straniero, fondato su decisivi indici di stabilità lavorativa e relazionale, la cui radicale modificazione, mediante il rimpatrio, possa ritenersi idonea a determinare una situazione di vulnerabilità dovuta alla compromissione del diritto alla vita privata e/o familiare ex art. 8 CEDU, sulla base di un giudizio prognostico degli effetti dello “sradicamento” che incentri la valutazione comparativa sulla condizione raggiunta dal richiedente nel paese di accoglienza, con attenuazione del rilievo delle condizioni del paese di origine non eziologicamente ad essa ricollegabili15.

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Protezione umanitaria, valutazione situazione soggettiva ed oggettiva

Corte di Cassazione, Sez. 1, sentenza del 3 aprile 2020 – – – Stranieri: protezione umanitaria – permesso di soggiorno – valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente

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IMMIGRAZIONE

Stranieri: protezione umanitaria – permesso di soggiorno – valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente – necessità

Corte di Cassazione, Sez. 1, sentenza n. 7675 del 3 aprile 2020

“In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza (così, Cass. 1104/2020).”

Il giudice nel decidere sulla richiesta di protezione umanitaria è tenuto a giustificare l’affermazione di mancanza di vulnerabilità del richiedente, approfondendo e scrutinando le effettive (e dedotte) ragioni fondanti la domanda.

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“In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel paese d’accoglienza (così, Cass. 1104/2020).”

Il giudice nel decidere sulla richiesta di protezione umanitaria è tenuto a giustificare l’affermazione di mancanza di vulnerabilità del richiedente, approfondendo e scrutinando le effettive (e dedotte) ragioni fondanti la domanda.

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Protezione umanitaria, successione di leggi nel tempo

Cassazione, Sez. Un. Civ.,  del 13 novembre 2019 – – – Stranieri – diritti fondamentali – protezione internazionale – status di rifugiato – protezione sussidiaria – protezione umanitaria – permesso di soggiorno – valutazione indipendenza economica e personale – insufficienza – successione di leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria

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IMMIGRAZIONE – STRANIERI

Diritti umani fondamentali – protezione internazionale – status di rifugiato – protezione sussidiaria – protezione umanitaria – permesso di soggiorno – valutazione indipendenza economica e personale – insufficienza – successione di leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria – applicabilità normativa esistente al momento della presentazione della domanda – accertamento sussistenza presupposti per riconoscimento permesso di soggiorno per motivi umanitari – permesso di soggiorno per “casi speciali” – valutazione comparativa situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento a paese di origine, in raffronto a situazione integrazione raggiunta nel paese di accoglienza – necessità

Corte di Cassazione, Sez. Un. Civ. , sentenza n. 29459 del 24 settembre 2019, depositata il 13 novembre 2019

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Nella Sentenza

(Tizio) cittadino ( …) impugnò dinanzi al … la decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, che gli aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato e la protezione sussidiaria, e aveva altresì respinto l’ulteriore richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Esito negativo sortì il ricorso in primo grado, … in parziale accoglimento dell’appello, ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari; a sostegno della decisione ha fatto leva sull’assunzione del richiedente, e , quindi sull’indipendenza economica e personale da lui acquisita, con conseguente integrazione sociale utile al rilascio del permesso.
Contro la sentenza ha proposto ricorso il Ministero dell’Interno per ottenerne la cassazione, che ha affidato a un unico motivo, cui il cittadino … ha reagito con controricorso.
OMISSIS
In accoglimento del ricorso la sentenza va cassata, con rinvio, …alla … in diversa composizione, affinchè valuti la questione alla luce dei seguenti principi di diritto:

“in tema di successione di leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con d.l. n. 113 del 2018, convertito con la l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018 comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per “casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge”.

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“In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.
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Quale sorte per il permesso di soggiorno umanitario dopo il dl 113/2018?

L’orientamento dei Tribunali (Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Torino, Trento) e della dottrina in punto di regime intertemporale della nuova disciplina della protezione umanitaria: prima lettura del dl 113/2018 in corso di conversione.
di Carlo Padula
professore associato di diritto costituzionale presso l’Università di Padova
assistente di studio presso la Corte costituzionale

1. Cenni sul permesso di soggiorno umanitario, prima e dopo il dl 113/2018

Il 5 ottobre 2018 è entrato in vigore il decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata). Nel preambolo esso attesta «la necessità e urgenza di prevedere misure volte a individuare i casi in cui sono rilasciati speciali permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario», e l’art. 1 di esso detta «Disposizioni in materia di permesso di soggiorno per motivi umanitari e disciplina di casi speciali di permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario».

Prima del dl 113/2008, l’art. 5, comma 6, T.U. immigrazione (d.lgs 286/1998) così disponeva:

«6. Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione».

Il permesso di soggiorno umanitario [1] si affiancava al permesso di soggiorno rilasciato ai titolari dello status di rifugiato e ai titolari dello status di protezione sussidiaria (vds. l’art. 23 d.lgs 251/2007). Lo status di rifugiato e di protezione sussidiaria compongono la protezione internazionale [vds. art. 2, comma 1, lett. a) d.lgs 251/2007 e art. 2, comma 1, lett. b) d.lgs 25/2008] [2]. In base all’art. 32, comma 3, d.lgs 25/2008 (vigente prima del dl 113/2008), «[n]ei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286» [3].

Il T.U. immigrazione prevedeva (prima del dl 113/2018), oltre al generale permesso di soggiorno umanitario, casi speciali di rilascio del permesso di soggiorno: «per motivi di protezione sociale» (art. 18), «per le vittime di violenza domestica» (art. 18-bis) e per «ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo» (art. 22, comma 12-quater). Si trattava di casi tipici del permesso di soggiorno umanitario [4], che si aggiungevano alla previsione generale dell’art. 5, comma 6,T.U..

I sopra citati art. 5, comma 6, T.U. e art. 32, comma 3, d.lgs 25/2008 sono stati modificati dal dl 113/2018: nell’art. 5, comma 6, è venuta meno la generale previsione del permesso di soggiorno per «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» [5], e corrispondentemente l’art. 32, comma 3, non rinvia più al “generico” permesso di soggiorno umanitario di cui all’art. 5, comma 6, T.U. ma ai casi di cui all’art. 19, comma 1 e 1.1, T.U. [6], che ricalcano le condizioni dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria [7].

Inoltre, il dl 113/2018 ha eliminato i riferimenti all’art. 5, comma 6, T.U. nelle disposizioni relative ai permessi «per le vittime di violenza domestica» (art. 18-bis T.U.) e per «ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo» (art. 22, comma 12-quater, T.U.) e ha aggiunto nel testo unico altri tre casi di speciali permessi di soggiorno: quello «per cure mediche» [art. 19, comma 2, lett. d-bis)], quello «per calamità» (art. 20-bis) e quello «per atti di particolare valore civile» (art. 42-bis).

Infine, l’art. 1, comma 1, dl 113/2018 ha eliminato i riferimenti al permesso di soggiorno per motivi umanitari in diverse disposizioni del testo unico. In alcuni casi i rinvii al permesso umanitario sono stati sostituiti con un rinvio ai sopra citati casi speciali di permesso di soggiorno e a quello rilasciato ai sensi del novellato art. 32, comma 3, d.lgs 25/2008. L’art. 1, comma 6, dl 113/2018 ha tolto i riferimenti al permesso di soggiorno umanitario anche nel regolamento attuativo del testo unico (dPR 394/1999).

In sostanza, dopo il dl 113/2018 il testo unico menziona le esigenze umanitarie solo nella rubrica del titolo III del capo II [8] e nell’art. 20, che prevede «misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente testo unico, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea».

Mi pare che l’effetto prodotto dal dl 113/2018 non sia quello dell’abolizione del permesso di soggiorno umanitario, ma quello dell’abolizione del “generico” permesso umanitario: il dl 113/2018 ha lasciato in vita le ipotesi tipiche del permesso umanitario, aggiungendo altri tre permessi speciali, due dei quali sono pur sempre collegati a esigenze umanitarie (quello «per cure mediche» e quello «per calamità»), mentre il terzo («per atti di particolare valore civile») ha natura premiale. Si vedrà nel paragrafo 3 in che misura le novità introdotte dal dl 113/2018 siano compatibili con la Costituzione e, in particolare, con l’art. 10, terzo comma, Cost. («Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge»).

2. La posizione soggettiva sottostante al permesso umanitario e la questione della retroattività del dl 113/2018

A partire dall’ordinanza delle sezioni unite civili n. 11535 del 2009, la Cassazione ha affermato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in relazione al diniego del questore di concedere il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie di cui all’art. 5, comma 6, T.U. (vigente prima del dl 113/2018). La Cassazione motivò la propria svolta (prima era affermata la giurisdizione del giudice amministrativo: ord. Cass., Sez. unite, n. 7933 del 2008) osservando che il potere decisorio sul permesso umanitario era stato assegnato alle commissioni territoriali, organi tecnici, con conseguente eliminazione di ogni discrezionalità amministrativa nella decisione della commissione e in quella successiva del questore [9]: ciò, secondo la Cassazione, conduceva a ritenere che il richiedente il permesso umanitario invocasse un diritto soggettivo [10].

Con la di poco successiva ordinanza n. 19393 del 2009 delle Sezioni unite civili, la Cassazione precisò che questo diritto soggettivo ha la stessa natura del diritto di asilo, è un diritto umano fondamentale e trova copertura costituzionale nell’art. 2 Cost.: «La situazione giuridica dello straniero che richieda il rilascio di permesso per ragioni umanitarie ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali con la conseguenza che la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost. esclude che dette situazioni possano essere degradate a interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidata solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato al legislatore». Questo orientamento è stato successivamente tenuto fermo, anche dal Consiglio di Stato: v., ad es., la sent. Cass. civile, sez. I, n. 4455/2018; l’ord. Cass., sez. unite civili, 28.2.2017, n. 5059; l’ord. Cass., sez. VI, n. 16362/2016; la sent. C. Stato, sez. III, 9.5.2013, n. 2524; la sent. C. Stato, sez. III, 5.9.2012, n. 4714; l’ord. Cass., sez. VI, n. 26481/2011; l’ord. Cass., sez. unite civili, 16.9.2010, n. 19577».

Dunque, la Pubblica amministrazione ha una funzione di accertamento del diritto al permesso di soggiorno umanitario; in mancanza, se ne può chiedere il riconoscimento al giudice ordinario.

Premesso ciò, occorre affrontare due quesiti:

a) il dl 113/2018 va inteso nel senso di escludere il rilascio del permesso umanitario a chi abbia già maturato il diritto prima del 5 ottobre 2018?;

b) se fosse così, sarebbe accettabile dal punto di vista costituzionale?

Naturalmente, la prima verifica da compiere attiene all’eventuale presenza, nel dl 113/2018, di norme transitorie. Esse ci sono e sono contenute nell’art. 1, commi 8 e 9: il comma 8 regola i casi di permesso umanitario già riconosciuto ai sensi del previgente art. 32, comma 3, d.lgs 25/2008 [11], mentre il comma 9 disciplina i casi in cui il permesso umanitario non sia stato rilasciato ma la Commissione territoriale abbia già «ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario». In queste ultime ipotesi, il comma 9 prevede il rilascio di un permesso di soggiorno «recante la dicitura “casi speciali”» [12].

Il comma 9 significa che, se la commissione non ha già riconosciuto esistenti i presupposti del permesso umanitario, ne è precluso l’accertamento dopo il 5 ottobre 2018, a danno di chi avesse già maturato il diritto?

Prescindendo dall’intento soggettivo dei redattori del decreto-legge, occorre utilizzare i consueti criteri ermeneutici, letterale e logico-sistematico. La lettera del decreto-legge tace sul caso in cui la commissione non si è ancora pronunciata o si è pronunciata negativamente. Quanto all’intenzione oggettiva del decreto, mi pare che al primo quesito sopra posto si debba rispondere nel senso che il dl 113/2018 non intende escludere il rilascio del permesso umanitario a chi abbia già maturato il diritto prima del 5 ottobre 2018. Tale conclusione è sostenuta dall’interpretazione sistematica: a tal fine viene in rilievo, in primo luogo, il dovere di interpretazione “adeguatrice”, conforme a Costituzione. Infatti, qualora il dl 113/2018 impedisse di rilasciare il permesso umanitario a chi abbia già maturato il diritto, ci troveremmo di fronte a una norma estintiva in toto, in modo imprevedibile, di un diritto soggettivo, con conseguente violazione dei principi costituzionali di ragionevolezza e certezza del diritto e compromissione della tutela dell’affidamento (e così rispondo al secondo quesito) [13]. Dunque, a prescindere dal rango costituzionale del diritto al permesso umanitario (su ciò vds. il paragrafo 3), se il dl 113/2018 avesse questo significato, si potrebbe dubitare della sua conformità all’art. 3 Cost. (oltre che all’art. 117, primo comma, Cost., dato che il principio di certezza è anche un principio generale del diritto europeo e ci muoviamo in un ambito di applicazione del diritto europeo) [14]. In particolare, è da sottolineare che il dl 113/2018 non si limita a circoscrivere in qualche misura il permesso umanitario “generico” (ad esempio, nella durata) ma lo sopprime integralmente, lasciando in vita solo le ipotesi tipiche (vds. il paragrafo 1). Pare difficile, dunque, ritenere che rispetti il principio di proporzionalità e sia conforme all’art. 3 Cost. una norma estintiva di un diritto già sorto, anche considerando il tipo di affidamento sacrificato e l’importanza degli interessi che vengono in gioco.

Se ciò pare sostenibile a prescindere dalla “copertura” costituzionale del permesso umanitario, è da aggiungere che, qualora esso attui norme costituzionali (vds. paragrafo 3), l’abolizione retroattiva del permesso umanitario “generico” troverebbe un ulteriore ostacolo nel superare indenne il sindacato di ragionevolezza: se l’eliminazione del permesso umanitario “generico” lascia scoperti interessi costituzionali, viene meno la possibilità di giustificare la retroattività con una «causa normativa adeguata» (per usare le parole della Corte costituzionale) o con «motivi imperativi di interesse generale» (per usare le parole della Corte Edu) [15].

Inoltre, se l’art. 1, comma 9, fosse inteso nel senso di differenziare i migranti a seconda che la Commissione abbia già riconosciuto o meno le condizioni del permesso umanitario, si potrebbe ipotizzare anche una violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto si determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento fra soggetti ugualmente titolari del diritto, disparità che potrebbe dipendere dai ritardi o dalle errate valutazioni della Commissione.

L’interpretazione sistematica qui auspicata si regge, oltre che sull’influsso delle norme costituzionali, sul principio di irretroattività di cui all’art. 11 disp. prel. cc: premesso che l’applicazione di quel principio è circondata da svariate e complesse questioni [16], mi pare possibile ritenere che, nell’assenza di una norma transitoria sul punto, quel principio conduca ad escludere che l’atto legislativo voglia eliminare un diritto quesito. Qualora un soggetto sia giunto in Italia e «il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale» (per usare le parole della citata sent. Cass. n. 4455/2018), il diritto al permesso di soggiorno umanitario è entrato nel suo “patrimonio giuridico” e va riconosciuto, a meno che una legge non incida retroattivamente sui diritti quesiti, nei limiti costituzionali in cui ciò è possibile.

Inoltre, l’art. 11 delle preleggi concorre ad escludere l’applicazione retroattiva del dl 113/2018, perché essa priverebbe di effetto giuridico un fatto generatore passato. Il dl 113/2018, infatti, non si limita a disciplinare diversamente il diritto di soggiorno, modificando gli effetti giuridici del fatto generatore, ma esclude qualsiasi rilievo ai seri motivi umanitari, salve le ipotesi tipicamente previste; per questo motivo l’applicazione retroattiva priverebbe del tutto di effetti giuridici un evento passato.

3. Il dl 113/2018 e il futuro: rapporti tra permesso di soggiorno umanitario e diritto di asilo

Sia in dottrina che in giurisprudenza è stato riconosciuto rango costituzionale al diritto al permesso di soggiorno umanitario: esso è stato considerato, in primo luogo, manifestazione del diritto di asilo di cui all’art. 10, terzo comma, Cost. [17].

In effetti, le situazioni che impediscono – nel Paese di provenienza dello straniero − «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» non sono solo quelle che precludono l’esercizio dei diritti che più direttamente attengono alla democrazia (libertà di espressione, di associazione etc.) ma tutte quelle che incidono sui diritti fondamentali e sulle condizioni minime di una vita sicura e dignitosa. Come noto, infatti, i diritti alla vita, alla salute, all’istruzione etc. sono il presupposto per l’esercizio delle libertà (più strettamente) «democratiche». L’art. 10, terzo comma, Cost. va dunque letto in collegamento con l’art. 3, secondo comma, Cost. [18] e con l’art. 2, comma 1, del testo unico [19].

Poiché i presupposti della protezione internazionale (status di rifugiato e protezione sussidiaria) sono ben definiti (vds. il paragrafo 1), tutte le altre situazioni in cui lo straniero era privato, nel proprio Paese, di uno o più diritti fondamentali, non esistendo le condizioni minime di una vita sicura e dignitosa, trovavano tutela tramite il permesso umanitario.

In tale veste attuativa del diritto di asilo, il permesso umanitario si ricollegava in particolare alla seconda parte dell’art. 5, comma 6, T.U., cioè a quella che menzionava gli obblighi costituzionali («seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano»). Il dl 113/2018, modificando l’art. 5, comma 6, T.U., ha eliminato interamente la previsione del permesso umanitario “generico”, compreso quello fondato sugli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano.

Quali sono le conseguenze della modifica introdotta dal dl 113/2018? Mi pare che si possano ipotizzare due percorsi. Il primo parte dalla constatazione che l’art. 10, terzo comma, Cost. è considerato norma direttamente applicabile (e infatti è stato oggetto di applicazione diretta nei lunghi anni di inattuazione legislativa dell’art. 10, terzo comma, Cost.) [20] e perviene, in sostanza, a “sterilizzare” – almeno in parte − la modifica normativa, in quanto manterrebbe la possibilità di rilasciare il permesso umanitario là dove esso sia attuativo del diritto di asilo (cioè, nei casi di privazione dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza). Secondo la Cassazione, «il diritto di asilo è […] interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 (adottato in attuazione della direttiva 2004/83/CE) e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, sì che non si scorge alcun margine di residuale diretta applicazione della norma costituzionale» (Cass. civile, sez. VI, n. 10686/2012, confermata da Cass. civile, sez. VI, n. 16362/2016). Dunque, venuta meno una delle forme di attuazione del diritto di asilo, potrebbe “rivivere” la diretta applicabilità dell’art. 10, terzo comma, Cost.

Il secondo percorso parte da una diversa lettura del dl 113/2018, non nel senso della mancata previsione del permesso umanitario ma nel senso della preclusione di esso (cioè, come se disponesse che non è ammesso il rilascio del permesso umanitario al di fuori dei casi espressamente previsti). Qualora il dl 113/2018 escludesse il rilascio del permesso di soggiorno per motivi «risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», la sua incostituzionalità parrebbe risultante per tabulas. Dunque, sarebbe ipotizzabile una questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) dl 113/2018, nella parte in cui ha eliminato la possibilità di riconoscere il permesso di soggiorno umanitario “generico”, per violazione (perlomeno) degli artt. 2 e 10, terzo comma, Cost. [21]. Infatti, la legge cui rinvia l’art. 10, terzo comma, Cost. ha il compito di precisare le condizioni del rilascio e i requisiti del richiedente, di regolare la procedura del riconoscimento e i casi di cessazione, forse ha la possibilità di fissare limiti numerici ma non può limitare il diritto di asilo a un gruppo di soggetti (gli aventi diritto allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria), escludendo tutti coloro che si trovano in altri modi privati dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza.

Potrebbe venire in rilievo anche il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. in riferimento all’art. 8 Cedu, nei casi in cui lo straniero abbia stabilito determinati legami sociali e familiari in Italia [22]. Le fonti europee, invece, lasciano alla discrezionalità degli Stati la previsione dei permessi umanitari [23].

Più incerta mi sembra la valutazione del dl 113/2018, là dove abolisce il permesso di soggiorno umanitario non attuativo del diritto di asilo. Infatti, la formulazione del previgente art. 5, comma 6, T.U. [24] rivela che possono esserci casi di permesso umanitario non attuativi del diritto costituzionale di asilo. Essi possono essere comunque legati a una situazione di attuale pregiudizio dei diritti fondamentali (ma non nello Stato di provenienza) oppure semplicemente a considerazioni umanitarie (come è successo in relazione ai migranti provenienti dalla Libia) [25]. Alcuni degli speciali permessi fatti salvi dal dl 113/2018 rientrano in questa categoria. È venuta meno, però, la clausola “aperta” dell’art. 5, comma 6, T.U.

In conclusione, mi pare che, in relazione ai migranti che hanno maturato il diritto al permesso umanitario prima del 5 ottobre 2018, si possa immaginare il prevalere, nella giurisprudenza ordinaria, della soluzione della non retroattività del dl 113/2018; dunque, la Corte costituzionale potrebbe non essere investita – sotto questo profilo − della questione di legittimità costituzionale del dl 113/2018.

Invece, quanto ai migranti “futuri”, è ipotizzabile che la Corte costituzionale sia investita delle questioni di costituzionalità sopra delineate, apparendo difficile immaginare un compatto orientamento dei giudici ordinari nel senso della applicazione diretta dell’art. 10, terzo comma, Cost.

 


[*] Nel presente lavoro si fa riferimento al testo del dl 113/2018, prima della conversione. Gli emendamenti introdotti al Senato (testo del 7 novembre 2018) non mutano le conclusioni raggiunte nel presente lavoro.

[1] Sul permesso umanitario vds., da ultimo, la sent. Cass. Civile, sez. I, n. 4455/2018, e, in dottrina (anche per ulteriori citazioni), N. Zorzella,La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Dir., Imm. e Cittadinanza, n. 1/2018, pp. 1 ss.; P.Morozzo Della Rocca, Protezione umanitaria una e trina, in Questione giustizia trimestrale, n. 2/2018;G. Conti, Il criterio dell’integrazione sociale quale parametro rilevante per il riconoscimento della protezione umanitaria, in www.federalismi.it, 29 ottobre 2018; C. Favilli, La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018, in questa Questione Giustizia, 14 marzo 2018; A. Villecco, La Cassazione sui permessi di soggiorno per “seri motivi” umanitari, in Famiglia e diritto, n. 6/2018, pp. 537 ss.; V. Marengoni, Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, in Dir., Imm. e Cittadinanza, n. 4/2012, pp. 59 ss.; M. Cosito, La tutela amministrativa del migrante involontario, Jovene, Napoli 2016, pp. 233 ss.

[2] Rifugiato è il «cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese» [art. 2, comma 1, lett. e) d.lgs 251/2007; l’art. 7 definisce gli «atti di persecuzione»]. Persona ammissibile alla protezione sussidiaria è il «cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, […], correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno» [art. 2, comma 1, lett. g) d.lgs 251/2007]; in base all’art. 14, «sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale». In relazione al permesso umanitario vds. l’art. 34 d.lgs 251/2007.

[3] Vds. sent. Cass. civile, sez. I, n. 4455/2018: «La protezione umanitaria, in conclusione, costituisce una forma di tutela a carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia, come rende evidente l’interpretazione letterale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, (cd. decreto “procedure”), […] la protezione umanitaria è collocata in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale, potendo l’autorità amministrativa e giurisdizionale procedere alla valutazione della ricorrenza dei presupposti della prima soltanto subordinatamente all’accertamento negativo della sussistenza dei presupposti delle seconde».

[4] L’art. 18, comma 1, parlava e parla di «speciale permesso di soggiorno», l’art. 18-bis, comma 1, e l’art. 22, comma 12-quater, rinviavano espressamente all’art. 5, comma 6, ma tali riferimenti sono stati abrogati dal dl 113/2018.

[5] L’art. 5, comma 6, vigente al 9 novembre 2018, dispone: «6. Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti» [vds. l’art. 1, comma 1, lett. b) dl 113/2018].

[6] Vds. l’art. 32, comma 3, d.lgs 25/2008, vigente al 9 novembre 2018: «3. Nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale e ricorrano i presupposti di cui all’articolo 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale che reca la dicitura “protezione speciale”, salvo che possa disporsi l’allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga. Il permesso di soggiorno di cui al presente comma è rinnovabile, previo parere della Commissione territoriale, e consente di svolgere attività lavorativa ma non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro».

[7] Art. 19 T.U.: «1. In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. 1.1. Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani».

[8] Il titolo III è rubricato Disposizioni di carattere umanitario e comprende gli artt. da 18 a 20-bis.

[9] Ord. 11535/2009: «Di qui l’attribuzione alla Commissione di tutte le competenze valutative della posizione del richiedente asilo, da quella diretta all’ottenimento della protezione maggiore (lo status di cui al capo 3^ del D.Lgs. n. 251 del 2007) a quella generante una protezione sussidiaria (capo 4^ del D.Lgs., citato) sino a quella, residuale e temporanea, di cui al più volte richiamato del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 con una organica previsione che fa venir meno ogni margine di apprezzamento politico delle condizioni del paese di provenienza (apprezzamento che non può competere ad un organo tecnico quale è la Commissione Territoriale) e lascia residuare al Questore nulla più che un compito di mera attuazione dei deliberati assunti sulla posizione dello straniero dalla Commissione stessa (restando al Questore rimessa la valutazione degli altri requisiti di legge che rendono “eventuale”, come recita il citato art. 32, comma 3 il rilascio del permesso umanitario)».

[10] «Attribuire alla Commissione Territoriale […] la valutazione della sussistenza del quadro di controindicazioni al rimpatrio formulato dalle convenzioni internazionali firmate dall’Italia e richiamare tale valutazione come premessa per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 5, comma 6 del cit. T.U. sull’immigrazione significa assegnare alla Commissione stessa l’accertamento delle condizioni del diritto alla protezione ed al contempo escludere alcun margine di discrezionalità in tale valutazione (posto che, come dianzi detto, la natura tecnica dell’organo collegiale esclude che ad esso competano valutazioni proprie dell’autorità di governo). Correlato a tale attribuzione è quindi l’effetto di escludere che al Questore competa − in sede di adozione dei provvedimenti sul soggiorno del richiedente − la discrezionalità valutativa il cui esercizio faceva a sua volta escludere (come affermato dalle S.U. in ord. n. 7933 del 2008) la sussistenza del diritto soggettivo e la conseguente giurisdizione del giudice ordinario sui dinieghi».

[11] «8. Fermo restando i casi di conversione, ai titolari di permesso di soggiorno per motivi umanitari già riconosciuto ai sensi dell’articolo 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, in corso di validità alla data di entrata in vigore del presente decreto, è rilasciato, alla scadenza, un permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, come modificato dal presente decreto, previa valutazione della competente Commissione territoriale sulla sussistenza dei presupposti di cui all’articolo 19, commi 1 e 1.1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».

[12] «9. Nei procedimenti in corso, alla data di entrata in vigore del presente decreto, per i quali la Commissione territoriale non ha accolto la domanda di protezione internazionale e ha ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario allo straniero è rilasciato un permesso di soggiorno recante la dicitura “casi speciali” ai sensi del presente comma, della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato. Alla scadenza del permesso di soggiorno di cui al presente comma, si applicano le disposizioni di cui al comma 8»

[13] Sulla giurisprudenza costituzionale in tema di leggi retroattive vds., ad es., A. Giuliani, Retroattività e diritti quesiti nel diritto civile, in C. Padula (a cura di), Le leggi retroattive nei diversi rami dell’ordinamento, Napoli 2018, pp. 101 ss.

[14] Sul tema vds., ad es., S. Bastianon, La Corte di giustizia e le fonti retroattive, in C. Padula, op. cit., pp. 33 ss.

[15] Sul tema v., ad es., M. Bignami, La Corte Edu e le leggi retroattive, in C. Padula, op. cit., pp. 51 ss.

[16] Sulle leggi retroattive v., ex multis, anche per ulteriori citazioni, A. Pugiotto, Il principio d’irretroattività preso sul serio; L Antonini, Retroattività e diritto tributario;A. Calegari, Le leggi retroattive nel diritto amministrativo; D. De Pretis, Osservazioni conclusive, tutti in C. Padula, op. cit., rispettivamente pp. 11 ss., pp. 145 ss., pp. 205 ss., pp. 243 ss.; V. Pampanin, Legittimo affidamento e irretroattività della legge nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, in www.giustamm.it, n. 11/2015.

[17] Vds., ad es., P. Bonetti, Art. 10, in F. Clementi-L. Cuocolo-F. Rosa-G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana, Bologna 2018, pp. 77 ss.; M. Consito, op. cit., 223; V. Marengoni, op. cit., pp. 65 ss.; C. Favilli, op. cit., § 4: Cass. civile, sez. I, n. 4455/2018: «La protezione umanitaria costituisce una delle forme di attuazione dell’asilo costituzionale (art. 10 Cost., comma 3), secondo il costante orientamento di questa Corte (Cass. 10686 del 2012; 16362 del 2016), unitamente al rifugio politico ed alla protezione sussidiaria, evidenziandosi anche in questa funzione il carattere aperto e non integralmente tipizzabile delle condizioni per il suo riconoscimento, coerentemente con la configurazione ampia del diritto d’asilo contenuto nella norma costituzionale, espressamente riferita all’impedimento nell’esercizio delle libertà democratiche, ovvero ad una formula dai contorni non agevolmente definiti e tutt’ora oggetto di ampio dibattito».

[18] «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

[19] «Allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti».

[20] Vds. Cass., sez. unite, n. 4674/1997; in dottrina vds., ad es., P. Bonetti, op. cit., 75; A. Cossiri, Art. 10, in S. Bartole e R. Bin (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova 2008, 86; N. Zorzella, op. cit., 2; V. Marengoni, op. cit., p. 65.

[21] Vds. N. Zorzella, op. cit., p. 9 e ss.: «L’art. 5, co. 6 TU immigrazione rappresenta, pertanto, non solo la salvaguardia, certamente opportuna, di un sistema rigido qual è il TU immigrazione, ma una salvaguardia necessitata dagli artt. 2, 3 e 10 della Costituzione (che impone che la legge sia conforme alle norme di diritto internazionale, che molti di quei diritti umani contempla, oltre che ai Trattati internazionali) e dalle altre disposizioni costituzionali e internazionali che proteggono diritti e libertà fondamentali universali e dunque norma imprescindibile e non abrogabile». Sul collegamento fra art. 2 Cost. e permesso umanitario v., ad es., ord. Cass. civile, sez. unite, n. 19393/2009.

[22] Vds. sent. Cass. civile, sez. I, n. 4455/2018; C. Favilli, op. cit., § 2 («il principio che si ricava dall’art. 8 Cedu è esattamente quello della valorizzazione dei legami familiari o sociali costruiti nel Paese membro (art. 8.1) comparati con quelli esistenti nel Paese d’origine»); N. Zorzella, op. cit., pp. 26 ss.

[23] Vds. l’art. 6, par. 4, direttiva “rimpatri” 2008/115/CE: «In qualsiasi momento gli Stati membri possono decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare. In tali casi non è emessa la decisione di rimpatrio. Qualora sia già stata emessa, la decisione di rimpatrio è revocata o sospesa per il periodo di validità del titolo di soggiorno o di un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare». V. anche il Considerando 15 della direttiva 2011/95/UE: «La presente direttiva non si applica ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi cui è concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perché bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale».

[24] Vds. la particella disgiuntiva «o»: «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».

[25] Vds. N. Zorzella, op. cit., pp. 3 ss.


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L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica

 

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Protezione umanitaria: il commento dell’ASGI sulla circolare del Ministro dell’interno

L’ASGI giudica errata ed inopportuna la circolare e ricorda al Ministro che la protezione umanitaria deriva dalla Costituzione .

Il Ministro dell’interno e la protezione umanitaria: perché è vano il suo tentativo di prescrivere orientamenti politici alle Commissioni territoriali

 

La circolare del Ministero dell’interno del 4 luglio 2018, inviata alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, è inopportuna ed errata nei suoi presupposti e nelle sue finalità.

INOPPORTUNA, perché il Ministro dell’interno è un organo politico che vuole dare indicazioni politiche ad un organismo amministrativo – le Commissioni territoriali – sia in relazione ai tempi amministrativi di definizione delle domande di protezione internazionale, sia per contenere il riconoscimento della protezione umanitaria in base a motivazioni esplicitamente economiche.

L’autonomia formale delle Commissioni (“Ogni Commissione territoriale e ognuno delle sue sezioni opera con indipendenza di giudizio e di valutazione”: art. 4, co. 3-bis d.lgs. 25/2008) è già dubbia stante la presidenza assunta ex lege da un funzionario della carriera prefettizia (ovverosia dipendente direttamente dal Ministro dell’interno) e la prevalenza del suo voto rispetto agli altri componenti; oggettiva non indipendenza che potrà manifestarsi ancora di più se, nonostante l’assunzione di 250 commissari specializzati in materia di protezione internazionale, si volesse (come appare evidente) condizionarne l’operato.

In questo già ambiguo e contraddittorio contesto giuridico ed in mancanza di una Agenzia indipendente che vagli le istanze di protezione internazionale, la circolare del Ministro dell’interno cerca di rafforzare l’indirizzo politico del dicastero, innanzitutto chiedendo un’accelerazione dei tempi di definizione delle domande di protezione internazionale, facendo prevalere il tempo sul diritto. Richiesta che appare in contrasto con il dovere, per l’autorità competente all’esame delle domande di protezione internazionale, di valutare “su base individuale”, ovverosia caso per caso, la singola richiesta e di raffrontare le dichiarazioni del richiedente con le specifiche e pertinenti informazioni sul Paese di origine. Operazione, quest’ultima, che richiede oggettivamente un congruo tempo, dovendosi cercare e valutare vari Rapporti (di agenzie umanitarie, di organismi istituzionali e non), oltre che altre innumerevoli fonti, al fine di porle in relazione con il contesto personale di
origine di ogni singolo richiedente.

L’esame della domanda di protezione non può, dunque, essere oggetto di tentativi di strumentalizzazione ed accelerazione che andrebbero a svantaggio della congruità e specificità della valutazione, come stabilito dalla legge, e che inciderebbero sul contenuto delle decisioni, già oggi troppo spesso prive di effettiva motivazione, con conseguente inevitabile aumento del contenzioso giudiziale.

INOPPORTUNA ed ERRATA, perché la circolare del 4 luglio esorta, di fatto, le Commissioni territoriali a contenere il riconoscimento della protezione umanitaria, istituto che, secondo il Ministro, sopravvive in Italia “Nonostante l’avvenuto recepimento nel nostro Ordinamento della protezione sussidiaria”. Ignora il Ministro che si tratta di due istituti completamente diversi e che l’art. 5, co. 6 TU 286/98, che prevede la cd. protezione umanitaria, esiste da ben prima della normativa sulla protezione internazionale (del 2007-2008) in quanto è stato introdotto nel 1998 dalla legge n. 40/98, poi trasfusa nel TU 286/98.

Ma soprattutto ignora che il fondamento dell’art. 5, co. 6 TU 286/98 si trova proprio nella nostra Costituzione, di cui attua vari precetti, tant’è che riguarda tutte le situazioni nelle quali una persona straniera (dunque, non solo il richiedente asilo) non possa conseguire un permesso di soggiorno secondo le regole ordinarie, ma lo debba avere in ottemperanza a “serie ragioni umanitarie” o derivanti da obblighi costituzionali o da obblighi internazionali. Secondo la costante ed unanime
interpretazione della Corte di Cassazione, l’art. 5, co. 6 TU 286/98 attua anche l’asilo costituzionale di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione, il quale garantisce protezione a tutte le persone che appartengono a Paesi nei quali non siano effettivamente rispettate le libertà fondamentali previste dalla nostra Costituzione. l’art. 5, co. 6 TU immigrazione non si limita a realizzare l’asilo costituzionale, in quanto vari altri obblighi costituzionali sono dallo stesso tutelati, tra i quali, in particolare, l’art. 2 della Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”), l’art. 3 (divieto di discriminazione e dovere di rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza sostanziale), l’art. 13 (inviolabilità della libertà personale, con le tutele ivi previste), gli artt. 17 e 18 (libertà di riunione e di associazione) l’art. 21 (libertà di manifestazione del pensiero), gli artt. 29-30 (diritto alla protezione per la famiglia), l’art. 32 (diritto alla salute), l’art. 34 (diritto all’istruzione dei minori), ecc.

Inoltre, come già ricordato, l’art. 5, co. 6 TU 286/98 ricomprende anche situazioni alle quali corrispondano obblighi internazionali dello Stato italiano, tra i quali vanno richiamati gli articoli inderogabili della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali del 1950 (artt. 2 – diritto alla vita – art. 4, & 1 – divieto di riduzione in schiavitù o servitù – art. 3 – divieto di trattamenti inumani e degradanti – art. 7 – nulla poena sine lege) ed anche l’art. 8 (divieto di interferenze arbitrarie alla vita privata ed alla vita familiare).
Va ricordato, del resto, che l’Italia si è impegnata a rispettare le norme ed i trattati di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed è tenuta a disciplinare la condizione giuridica della persona straniera in conformità ad essi (art. 10 Cost.).

Ecco, dunque, che l’art. 5, co. 6 TU 286/98 non è disposizione che possa essere marginalizzata nell’ordinamento giuridico italiano, poiché anche il Legislatore non potrebbe omettere di considerare le varie disposizioni costituzionali ed internazionali che di per sé consentono di richiedere diretta tutela all’Autorità giudiziaria.

ERRATA è, infine, la circolare anche nella parte in cui sembra affermare che l’istituto della protezione umanitaria esista solo in Italia. In realtà, questa particolare forma di tutela è riconosciuta in molti Paesi UE, come si evince dai dati EUROSTAT [1].

Le sopra richiamate disposizioni, costituzionali ed internazionali, sono alla base anche della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018, che, tuttavia, il Ministro dell’interno richiama al solo fine di pretendere dalle “proprie” Commissioni territoriali di contenere la prassi che “ha comportato la concessione di un titolo di soggiorno ad un gran numero di persone che, anche in base alla
normativa europea sull’asilo, non avevano al momento dell’ingresso nel nostro Paese, i requisiti per la protezione internazionale”. Prassi a cui il Ministro collega “consequenziali problematiche sociali che, nel quotidiano, involgono anche motivi di sicurezza”.

A parte l’immotivata e politica evocazione di problemi di sicurezza pubblica – impropri se proferiti da una carica istituzionale in assenza di dati ed analisi concrete – , la circolare ministeriale omette di considerare l’intero impianto giuridico (non politico) della pronuncia della Cassazione, che di quelle disposizioni fa espresso richiamo per affermare che la condizione attuale del richiedente protezione, al quale non possa essere riconosciuta secondo i criteri di legge la protezione internazionale, debba essere comparata con la situazione in cui si ritroverebbe in caso di rimpatrio nel Paese di origine e se essa comporti una lesione dei diritti umani.

Chiunque conosca la realtà della stragrande maggioranza dei Paesi dai quali provengono i richiedenti protezione in Italia, avrebbe consapevolezza che in essi vi sono svariate violazioni di libertà fondamentali e dei diritti umani, talché l’invito alle Commissioni ad esercitare la loro funzione con il “più assoluto rigore e scrupolosità” dovrebbe sottendere l’applicazione rigorosa delle previsioni di legge (che quelle libertà e quei diritti tutelano), non certo a contenere le decisioni di riconoscimento della protezione umanitaria che, ad avviso del Ministro, sono anche “effetto di una copiosa giurisprudenza che ha orientato l’attività valutativa delle Commissioni” (un avvertimento anche per la magistratura?).
Certi che l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura non potranno essere intaccate da un simile tentativo di condizionamento, ribadiamo la necessità di una riforma del sistema che porti gli organi decisionali amministrativi in questa materia ad essere formalmente ed istituzionalmente autonomi e indipendenti dal potere esecutivo e, sino a quando ciò non avvenga, vogliano sempre fare prevalere i precetti costituzionali, affinché – tramite i funzionari pubblici – “siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.

 

Note

[1]  http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Asylum_statistics/it

http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=File:Distribution_of_final_decisions_on_(non-EU)_asylum_applications,_2016_(%25)_YB17_II.png


 

Per approfondire

La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano  – Diritto Immigrazione Cittadinanza

La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018 – Questione e Giustizia

Il permesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’aer. 5 co 6 D.lgs 286/98 – Scheda ASGI

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