Al via le quote d’ingresso per il 2023. Un commento al Decreto Flussi

Sveglia

Si ringrazia l’avv. Marco Paggi per il commento.

Il 29 dicembre scorso è stato pubblicato il D.P.C.M. formalmente intitolato alla “Programmazione transitoria dei flussi d’ingresso dei lavoratori non comunitari nel territorio dello Stato per l’anno 2022”, sebbene sia evidente come esso sia destinato di fatto a stanziare le c.d. “quote” di immigrazione per l’anno 2023.


Ingressi nominativi, una finzione che causa illegalità

Anzitutto, non si può che ribadire come la normativa vigente resti di fatto la principale causa di illegalità poiché non contiene meccanismi che consentano effettivamente l’ingresso regolare delle persone non cittadine UE, essendo fondata sull’anacronistico sistema dell’incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro.

Tutti sappiamo che si tratta di una sostanziale finzione (a meno di credere che un datore di lavoro assuma normalmente dall’estero una persona che non ha mai incontrato e non sa se e quando arriverà), senza contare che ciò comporta una lunghissima gestione burocratica intollerabile per qualsiasi datore di lavoro.

Impossibile assumere assistenti familiari o stabilizzare in agricoltura

Le c.d. “quote” stanziate per il 2023 per motivi di lavoro subordinato non stagionale restano peraltro una quantità “omeopatica” rispetto alla domanda del mercato del lavoro: appena 30.105.

Esse sono riservate esclusivamente ai cittadini provenienti da paesi che hanno stipulato o stanno per perfezionare accordi di cooperazione con l’Italia (ad es. non sarebbe possibile assumere uno statunitense o un brasiliano), ma soprattutto sono utilizzabili solo in determinati comparti.

Sono ammessi solo i lavoratori dell’autotrasporto merci per conto terzi, dell’edilizia, turistico-alberghiero, della meccanica, delle telecomunicazioni, dell’alimentare e della cantieristica navale.

Grandi assenti il lavoro domestico (contrassegnato da un sommerso assolutamente prevalente) ed ampi settori della manifattura, ma anche l’agricoltura (consentito l’ingresso solo per lavoro stagionale).

Diventa impossibile utilizzare anche volendo le modestissime quote (4.400) per la conversione del permesso di soggiorno – ovvero la stabilizzazione a tempo indeterminato –  di un lavoratore agricolo stagionale. Del tutto risibili, future e incerte sono le quote di ingresso per i lavoratori formati all’estero, di cui vanno parlando i Ministri in Tunisia e in Turchia.

Vanno poi considerati le tempistiche gli adempimenti burocratici (già in buona parte inutili, basti pensare al ridondante rituale della stipula del famoso “contratto di soggiorno”, che impegna tempo e risorse dell’amministrazione per formalizzare un pezzo di carta che si sa non servire a nulla e non garantire niente e nessuno più di quanto non faccia la normale comunicazione di assunzione).

Assunzioni dall’estero solo se si dimostra di non trovare in Italia, dove manca la manodopera

Tale gestione farraginosa viene ora non solo confermata ma persino complicata con specifiche disposizioni riguardanti il requisito della “previa indisponibilità di un lavoratore presente sul territorio nazionale”. 

E’ infatti imposta la dimostrazione, da parte del datore di lavoro interessato all’assunzione di lavoratori stranieri residenti all’estero -anche per lavoro stagionale (ex art.31 DPR 394/99)-   di aver previamente esperito la verifica, presso il centro per l’impiego competente, dell’indisponibilità di un lavoratore presente sul territorio nazionale.

Tale previa verifica – a meno che non siano introdotte disposizioni correttive – dovrà essere effettuata prima della proposizione della domanda di nulla osta (a quanto pare, anche prima che inizi a decorrere il termine per la presentazione delle domande di nulla osta).

Tale domanda potrebbe risultare ammissibile solo dopo che il datore avrà autocertificato, alternativamente:

a) l’ assenza di riscontro, da parte del centro per l’impiego, circa l’individuazione di uno o più lavoratori rispondenti alle caratteristiche richieste, decorsi quindici giorni lavorativi dalla richiesta di personale da parte del datore di lavoro;

b) la  non idoneità del lavoratore accertata dal datore di lavoro prima della richiesta di nulla osta;

c) la mancata presentazione, senza giustificato motivo, a seguito di convocazione dei lavoratori inviati dal Centro per l’impiego al colloquio di selezione, decorsi almeno venti giorni lavorativi dalla data della richiesta di personale da parte del datore di lavoro al centro per l’impiego.

Si tratta di una procedura inutile già prevista in astratto dalla legge fin dal 2013, che finora é stata di fatto semplificata nella prassi per salvare le apparenze: un modulo in più per il centro per l’impiego destinato a rimanere senza risposta.

Ora si vuole invece enfatizzare con l’aggiunta di un sub procedimento preliminare per far vedere che “prima gli italiani”, mentre tutti gli operatori del settore sanno benissimo che è destinata a complicare gli adempimenti ed allungare la tempistica.

Tutto ciò senza influire minimamente sulle scelte operate nel mercato del lavoro, poiché non solo è nota l’indisponibilità di manodopera nazionale per i settori di più tradizionale impiego di persone straniere ma, soprattutto, l’assunzione nominativa “ad personam” è notoriamente predominante (il tutto al netto della capacità notoriamente scarsa di incrocio domanda/offerta da parte dei centri per l’impiego) . 

Semplificazione apparente

Questi adempimenti vanno ad aggiungersi alla previgente disciplina della procedura autorizzativa, che é stata recentemente rimaneggiata col DL 21/6/2022 (convertito con L….), recante “Misure per la semplificazione delle procedure di rilascio del nulla osta al lavoro e delle verifiche di cui all’art. 30 bis, co.8, del DPR 31/8/1999 n.394”, a sua volta modificato dal DL 29 dicembre 2022 n.198 (art.9 comma 2); tuttavia si tratta di una semplificazione solo apparente che non manca di presentare forti criticità

Si veda la scheda ASGI “Il decreto flussi 2021 alla luce delle novità introdotte dal Decreto Semplificazioni
Quando capirete che si tratta di persone e non di braccia?

Da un lato, infatti, vi si prevede per i soli decreti per gli anni 2021 e 2022 (quindi -si ritiene- anche in relazione al decreto in commento), un termine di 30 giorni per il rilascio del nulla osta da parte degli sportelli unici (sia pure senza attendere oltre detto  termine il parere della questura), termine che però è destinato a rimanere sulla carta, poiché è evidente sin d’ora che, non essendo previsto un silenzio-assenso, la tempistica reale per il rilascio continuerà ad essere condizionata dalla immutata scarsità organizzativa e di risorse degli uffici preposti

D’altro canto, si demanda in via esclusiva ai consulenti ed alle associazioni datoriali di categoria , oltre alle condizioni contrattuali di lavoro,  di asseverare in particolare la capacità finanziaria  del datore di lavoro in relazione alle previste assunzioni, salvo ammettere l’esenzione da detta asseverazione in favore delle istanze presentate dalle organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale che avranno sottoscritto con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali un apposito protocollo di intesa (da cui dovrebbe scaturire una incondizionata quanto astratta affidabilità delle pratiche). 

E’ noto come tale valutazione – finora rimessa ad una superficiale valutazione discrezionale degli uffici- sia in realtà estremamente complessa e soprattutto aleatoria, in quanto condizionata da molteplici fattori, ma ora la devoluzione di tale asseverazione si traduce in uno scarico di responsabilità sui consulenti , che é ancora più gravoso se si considera che non sono stati adottati parametri o indicazioni di sorta cui attenersi al riguardo, col risultato fin troppo prevedibile che, eccezion fatta per i professionisti compiacenti che talvolta assistono aziende poco trasparenti, i consulenti seri avranno comprensibili resistenze ad assumersi il rischio evidente della relativa responsabilità (anche penale, in relazione al potenziale carattere mendace delle stesse). 

E’ poi degno di nota come si pretenda di contrastare la tratta ed il caporalato nel settore agricolo stagionale confidando – non si sa se ingenuamente o ipocritamente – nella partecipazione delle organizzazioni professionali dei datori di lavoro al procedimento di assunzione dei lavoratori, riservando alle istanze di nulla osta al lavoro presentate da tali organizzazioni una larga parte della quota stabilita per il lavoro stagionale (ben la metà del totale di 44.000). E’ una partecipazione che, se da un lato favorisce teoricamente la sottoscrizione di quote associative, resta comunque complicata sotto il profilo pratico (si ricordano i problemi sorti con i “blocchi” conseguenti all’invio di domande aggregate per diverse imprese, oltre al conflitto di interessi nell’ordine cronologico di caricamento) ma soprattutto inutile: come se le cooperative o SRL senza terra non potessero iscriversi a tali organizzazioni e riceverne il servizio (dopo la comunicazione di assunzione non sono certo obbligate a fargli gestire le buste paga ed i contributi, anche a prescindere dal fatto che non risulta che le organizzazioni di categoria abbiano tanto spesso denunciato un loro iscritto per grave sfruttamento).

Semmai, una più genuina volontà di contrasto allo sfruttamento (e alle evasioni fiscali e contributive) potrebbe essere dimostrata se venisse resa operativa la possibilità di incrocio dei nulla osta per lavoro agricolo stagionale con i dati INPS sulle giornate di lavoro che poi vengono ufficialmente dichiarate dalle stesse aziende, prescrivendo ispezioni mirate verso le aziende che ne dichiarano una quantità infima rispetto alle lavorazioni da svolgere ed alle risorse umane ingaggiate.

Conclusioni

Mentre le “disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori” di cui al decreto legge n.1 del 2 gennaio scorso vedono come scopo urgente soltanto quello di ostacolare il diritto/dovere di soccorso in mare, questo decreto conferma ulteriormente la mancanza di una volontà politica di effettivo governo dei flussi migratori. Evidentemente, le norme apparenti e gli slogan sono considerati strumenti più utili.

In relazione alle migrazioni economiche, è indispensabile – da parte dell’UE e ancor prima da parte dello Stato italiano – l’immediata introduzione di canali di libero ingresso per ricerca di lavoro, basati sulle garanzie economiche prestate da singoli o da imprese o comunque individuando misure economiche effettive e adeguate di rimpatrio assistito nel caso, decorso un determinato periodo di tempo, la persona non abbia reperito un’attività lavorativa.


La circolare congiunta n. 648 del 30 gennaio 2023

Il  DPCM del 29 dicembre 2022 (c.d. Decreto flussi)


The post Al via le quote d’ingresso per il 2023. Un commento al Decreto Flussi appeared first on Asgi.

Pubblicato il n. 2/2022 della Rivista Diritto Immigrazione e Cittadinanza

Online il numero 2/2022 della Rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza” promossa da ASGI e Magistratura Democratica dal 1999. Dal 2017 la Rivista ha un sito internet dove pubblica i suoi contenuti gratuitamente on line. Di seguito il sommario.

Editoriale, di Bruno Nascimbene 

Saggi 

Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione e questioni di giurisdizione: alla ricerca della legalità sopita
di Chiara Cudia

La valutazione dell’intensità degli scontri ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria «lettera c»
di Antonio Guerrieri

Quali vie di ingresso legale per i richiedenti protezione in Europa? Contesto europeo e costituzionale
di Cecilia Siccardi

Quale ruolo degli attori pubblici nella sponsorship privata dei rifugiati? Una riflessione sull’esperienza italiana alla luce di quella canadese
di Luca Galli

Le procedure autorizzatorie pre-ingresso dei cittadini extraUE: quale giusto procedimento?
di Giulia Del Turco

L’eguaglianza alla prova delle migrazioni: la giurisprudenza costituzionale sulle prestazioni sociali a favore degli stranieri residenti
di Erik Longo

False dichiarazioni per ottenere il reddito di cittadinanza: profili di illegittimità del requisito soggettivo della residenza decennale in Italia per ottenere il beneficio e conseguenze in sede penale
di Patrizia Brambilla

Il principio di non punibilità delle vittime di tratta. Sfida per l’effettività dei diritti e logica dell’intervento penale
di David Mancini

Commenti

Autentica della firma e certificazione della data per me pari sono. Il doppio onere relativo alla procura speciale per il ricorso in Cassazione in materia di protezione internazionale al vaglio della Corte costituzionale (commento alla sent. n. 13/2022)
di Gianluca Famiglietti

Il capolinea dello stato di diritto: la Croazia e la rotta balcanica, tra Schengen, l’Unione europea e violazioni sistematiche dei diritti umani alle frontiere
di Francesco Luigi Gatta

Porti chiusi e mari aperti: la recente decisione del Gip di Agrigento sul caso Rackete
di Irini Papanicolopulu

Assegno unico per i figli a carico e nuovo art. 41 TU immigrazione: fine di una inadempienza italiana, con qualche passo indietro
di Alberto Guariso

Il processo penale allo straniero: un breve commento a margine della riforma Cartabia
di Linda Rosa

Rassegna di giurisprudenza europea


Rassegna di giurisprudenza europea

(periodo 1 gennaio 2022 – 30 aprile 2022)

Corte europea dei diritti umani
Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti – Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza – Art. 6: Diritto a un equo processo – Art. 8: Diritto al rispetto per la vita privata e familiare – Art. 4, Protocollo 4: Divieto di espulsioni collettive. 

Corte di giustizia dell’Unione europea
Direttiva 2004/83 e ruolo dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente: cessazione della protezione e possibili mutamenti successivi – Regolamento 604/2013 e presa in carico del richiedente asilo: nozione di detenzione – Direttiva 2013/32 e inammissibilità della domanda di protezione internazionale esperita da chi sia rifugiato in uno Stato membro: possibili deroghe giustificabili per tutelare unità familiare e interesse superiore del minore – Direttiva 2008/115 e limiti alla privazione della libertà del cittadino di Stato terzo irregolare da rimpatriare: luoghi di trattenimento – Direttiva 2003/109 e limiti al mantenimento dello status di soggiornante di lungo periodo: assenze prolungate dal territorio dello Stato membro ospitante – Regolamento 2016/399 e ripristino dei controlli alle frontiere interne: durata massima delle misure di introduzione e proroga.


Rassegna di giurisprudenza italiana


Allontanamento e trattenimento
ESPULSIONI: Espulsione per motivi di prevenzione del terrorismo – Espulsione in presenza di legami familiari  Effetti della domanda di protezione internazionale presentata successivamente all’adozione di decreto espulsivo  La pandemia COVID-19 costituisce causa di forza maggiore rilevante ai sensi del soggiorno divenuto illegale?  Espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione  Profili procedurali: motivazione apparente o perplessa – Omessa traduzione dell’espulsione e tardività dell’impugnazione – Divieto di valutazione dell’atto presupposto del decreto di espulsione – Ricorso per cassazione: legittimazione passiva e notifica del ricorso – Il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione. TRATTENIMENTO: Motivazione – Legami familiari – Trattenimento del richiedente asilo – Doppia tutela – Misure alternative al trattenimento –Bis in idem– Diritto al contraddittorio e partecipazione del trattenuto all’udienza – Proroga – Provvedimento presupposto – Risarcimento del danno da illegittimo trattenimento – Rito per l’impugnazione – Termini.

Ammissione e soggiorno
La regolarizzazione 2020 (art. 103, d.l. n. 34/2020) – Diritto alla presentazione della domanda di permesso – Soggiorno e alloggio – Permesso per lavoro autonomo e requisito reddituale in fase di rinnovo.

Asilo e protezione internazionale      
Lo status di rifugiato – La protezione sussidiaria – Questioni processuali – La giurisdizione in materia di silenzio della PA su domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari – Diritto al rilascio di visti umanitari – La protezione umanitaria e la protezione speciale nel procedimento di protezione internazionale – Diritti-Varie – Le misure di accoglienza per richiedenti asilo – I provvedimenti cd. Dublino (reg. 604/2013).

Cittadinanza e apolidia
 
Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano – Acquisto della cittadinanza iure soli alla nascita o durante la minore età: rinvenimento di minori nel territorio italiano; effetti anche a distanza di tempo – Acquisto della cittadinanza per elezione: mancata presa d’atto del trasferimento di residenza dell’interessato – Acquisto della cittadinanza per matrimonio – Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione – Accertamento dell’apolidia.

Famiglia e minori    
FAMIGLIA: Atto di nascita con due madri di minore cittadino dell’Unione – diritto alla libera circolazione – Assicurazione malattia del minore cittadino dell’Unione e del genitore affidatario ai fini del diritto al soggiorno in altro Paese UE – Visto per ricongiungimento familiare a favore di minore adottato all’estero da genitori resistenti in Italia – Rilevanza della vita familiare ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria. MINORI: Rilevanza dell’estratto di nascita nel procedimento per la determinazione dell’età del minore straniero non accompagnato.

Non discriminazione   
Assegno al Nucleo Familiare – Iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale – Documentazione supplementare ex art. 3, d.p.r.  445/2000 – Carta Famiglia. 

Penale
Incostituzionale la circostanza aggravante del reato di favoreggiamento dell’ingresso irregolare relativa all’utilizzo di servizi di trasporto internazionale o di documenti falsi – La conclusione della vicenda Vos Thalassa: la Cassazione riconosce la legittima difesa ai migranti che si sono opposti al tentativo di riportarli in Libia – La giurisdizione del giudice italiano per fatti di omicidio verificatisi in acque internazionali – False dichiarazioni volte ad ottenere indebitamente il Reddito di cittadinanza e requisito della residenza decennale in Italia.



Osservatorio europeo
(periodo 1 gennaio 2022 – 30 aprile 2022)



Atti di indirizzo
Solidarietà e accoglienza delle persone in fuga dall’Ucraina – Immigrazione per motivi di lavoro.

Atti adottati
Attivazione della protezione temporanea – Attivazione della protezione temporanea.

Proposte legislative
Attivazione della protezione temporanea – Permesso unico – Soggiornanti di lunga durata.

Varie
Attraversamento delle frontiere UE-Ucraina – Orientamenti operativi per l’attuazione della protezione temporanea – MSCA4Ukraine – Protezione delle persone in fuga dall’Ucraina e contrasto al traffico di persone – Agenzia europea per l’asilo – Summit UE-AU.

Osservatorio italiano              
(periodo 1 gennaio 2022 – 30 aprile 2022)    

       
Rassegna delle leggi, dei regolamenti e dei decreti statali
Modificazioni al testo unico delle leggi sull’immigrazione: ingressi e soggiorni per lavoro fuori dalle quote per nomadi digitali e lavoratori da remoto e per lavoratori marittimi – Dichiarazione dello stato di emergenza per l’accoglienza degli sfollati dall’Ucraina – Potenziamento del Sistema di accoglienza per ospitare gli sfollati dall’Ucraina, le forme dell’accoglienza diffusa e i contributi di sostentamento per gli sfollati – Revisione dell’elenco dei Paesi di origine sicuro ai fini della protezione internazionale: sospensione della Ucraina. Profili di illegittimità – Protezione temporanea in Italia per gli sfollati dall’Ucraina dopo il 24 febbraio 2022. Aspetti illegittimi delle norme italiane – Misure assistenziali in favore degli sfollati dall’Ucraina – Deroga alla disciplina del riconoscimento delle qualifiche professionali per medici e operatori sociosanitari ucraini ed esercizio temporaneo delle qualifiche – Potenziamento della Commissione nazionale per il diritto di asilo, delle Commissioni territoriali e del Ministero dell’interno per le maggiori esigenze in materia di immigrazione –  Prescrizioni sanitarie concernenti gli ingressi di stranieri – Sorveglianza sanitaria a bordo di navi per gli stranieri salvati in mare. Profili di illegittimità costituzionale.

Rassegna delle circolari e delle direttive delle amministrazioni statali
Istruzioni sull’accesso degli stranieri all’assegno unico universale – Nulla osta per lo straniero rifugiato che intenda contrarre matrimonio in Italia – Istruzioni operative sul rilascio dei permessi di soggiorno per protezione temporanea agli sfollati dall’Ucraina – Proroga dei termini per l’ingresso degli stranieri extraUE formati all’estero e delle domande di conversione – Priorità all’esame delle istanze di ingresso per lavoro stagionale in agricoltura presentate da organizzazioni di datori di lavoro – Priorità all’esame delle domande di emersione presentate da ucraini – Requisiti per l’accesso degli stranieri extraUE all’assegno di natalità (c.d. bonus bebè Indicazioni operative per l’accoglienza scolastica degli studenti ucraini – Contributi alla riflessione pedagogica e didattica a partire dell’accoglienza degli studenti ucraini sfollati dalla guerra – Profilassi sanitaria per il Covid concernente gli sfollati ucraini.


Recensioni e materiali di ricerca


Recensione a: Camille Schmoll, Le dannate del mare. Donne e frontiere nel Mediterraneo, Pisa, Astarte edizioni, 2022, di Anna Brambilla.

Segnalazioni bibliografiche

Rapporti, riviste e siti internet

La Rivista “Diritto Immigrazione e Cittadinanza”
La rivista, uscita per la prima volta nel 1999, promossa da ASGI e Magistratura Democratica, si propone come strumento di informazione e approfondimento, prevalentemente giuridico ma non solo, sui temi dell’immigrazione e dell’asilo e si rivolge a tutti i soggetti che operano nel settore (operatori giuridici, associazioni, enti locali, sindacati, scuole, università, uffici pubblici, ecc.). Scopo della Rivista è di dotare di strumenti conoscitivi coloro che operano nel settore dell’immigrazione, per meglio svolgere le funzioni di tutela e rappresentanza nei rapporti con la pubblica amministrazione ed in sede giurisdizionale. Ferma la sua impostazione, la Rivista, divenuta quadrimestrale col passaggio dalla versione cartacea , pubblicata dalla casa editrice Franco Angeli al sito on line con i contenuti gratuitamente disponibili dal 2017, ha inteso accentuare la sua vocazione all’analisi e all’approfondimento sia con l’intento di contribuire, soprattutto sotto il profilo giuridico, alla comprensione di un fenomeno sempre più complesso, sia con l’ambizione di porsi come laboratorio di riflessione e di confronto per politiche del diritto ispirate a quei valori che la nostra Costituzione e le Carte internazionali sui diritti umani proclamano.

The post Pubblicato il n. 2/2022 della Rivista Diritto Immigrazione e Cittadinanza appeared first on Asgi.

Pubblicato il n. 2/2021 della Rivista Diritto Immigrazione e Cittadinanza

On line il numero 2/2021 della Rivista “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza” promossa da ASGI e Magistratura Democratica dal 1999. Dal 2017 la Rivista ha un sito internet dove pubblica i suoi contenuti gratuitamente on line. Di seguito il sommario.

«Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La prova per questo obbiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita».
(Enrico Berlinguer, 7 giugno 1984, Padova)

Editoriale, di Roberta Aluffi

Saggi

La responsabilità penale dei ministri alla stregua dei principi costituzionali e nella prassi. Legittima prerogativa o illegittimo privilegio?
di Tommaso F. Giupponi

La crisi dei migranti nel Mediterraneo Centrale: le operazioni search and rescue non sono un fattore di attrazione
di Carlo Amenta, Paolo Di Betta, Calogero “Gery” Ferrara

Politiche di ri-confinamento in tempo di pandemia: l’utilizzo di «navi quarantena» in Italia e l’accesso al diritto di asilo
di Chiara Denaro

L’incidenza delle misure di contrasto della pandemia sulla condizione giuridica dei migranti sbarcati sulle coste italiane: il caso delle «navi quarantena»
di Guido Savio

La tutela della vita privata quale limite all’allontanamento: l’attuazione (e l’ampliamento) degli obblighi sovranazionali attraverso la nuova protezione speciale per integrazione sociale
di Marcella Ferri

La nuova protezione speciale introdotta dal d.l. 130/2020. Tra principio di flessibilità, resistenze amministrative e problematiche applicative
di Nazzarena Zorzella

Esperienze di consulenza antropologica nel giudizio di protezione internazionale. L’antropologo antropologo
di Giorgia Decarli

L’immigrazione per motivi di lavoro in Irlanda: tra spinte identitarie e scelte mirate
di Lucia Busatta

Commenti

Il Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa sulle politiche migratorie. Rilievi politici e giuridici
di Maurizio Delli Santi

Il procedimento di estradizione, tra questioni pregiudiziali e tutela dei diritti della persona. Commento a Cass., Sez. VI, 10 marzo 2020, n. 11374, Terteryan
di Linda Rosa

Il caso Shalabayeva: un «crimine di lesa umanità». Commento della sentenza del Tribunale di Perugia (sent. 14 ottobre 2020, dep. 8 gennaio 2021, Pres. Narducci, est. Narducci, Avella, Albani)
di Giulia Vicini

Rassegna di giurisprudenza europea

Corte europea dei diritti umani
Art. 3: Diritto alla vita e divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti – Art. 4: Divieto di schiavitù o lavoro forzato – Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare – Art. 1, Protocollo 1: Protezione della proprietà – Art. 1, Protocollo 7: Diritto a garanzie procedurali in caso di allontanamento
La rassegna relativa agli artt. 3-4 è di M. Balboni; la rassegna relativa agli artt. 8-1, Prot. 7 è di C. Danisi.

Corte di giustizia dell’Unione europea
Cessazione dello status di rifugiato: protezione nel Paese di origine e supporto economico e sociale offerto da privati – Esclusione dallo status di rifugiato di apolide di origine palestinese: valutazione delle circostanze di fatto che hanno portato alla fuga dal Paese di origine – Ricorso contro decisione di trasferimento del richiedente asilo verso lo Stato membro competente: garanzie procedurali – Allontanamento di minori non accompagnati: garanzie a tutela dell’interesse superiore del minore – Visti per soggiorni superiori a 90 giorni: impugnazione a fronte di decisione di diniego.

Rassegna di giurisprudenza italiana

Allontanamento e trattenimento
RESPINGIMENTI: Respingimento differito – Respingimento immediato: giurisdizione e competenza

ESPULSIONI: Espulsione e detenzione carceraria – Espulsione a seguito di riammissione ai sensi del Regolamento UE n. 604/2013 – Espulsione per mancato rinnovo del permesso di soggiorno – Irrilevanza dei legami familiari nei casi di espulsione disposta per inottemperanza a pregresso ordine di allontanamento – Necessaria corrispondenza tra motivo dell’espulsione e provvedimento del giudice – Irrilevanza della mancata presentazione del ricorrente in udienza – Sulla competenza delle sezioni specializzate per l’immigrazione a conoscere della legittimità delle espulsioni amministrative disposte in pendenza di procedimenti inerenti il diritto all’unità familiare

TRATTENIMENTO: Garanzie processuali e termini massimi di trattenimento del richiedente asilo. Rapporti tra il trattenimento pre-espulsivo e il trattenimento del richiedente asilo – Diritto alla comprensione degli atti e all’interprete – Termini – Motivazione – Divieti di espulsione, provvedimento presupposto e doppia tutela – Misure alternative al trattenimento – Proroga – Riesame – Legittimazione passiva – Comunicazione dell’ordinanza – Libertà di corrispondenza e di comunicazione – Risarcimento per illegittimo trattenimento

Ammissione e soggiorno
LA REGOLARIZZAZIONE 2020 (art. 103, d.l. n. 34/2020): Il comma 1 e le condanne penali – Il comma 2 e la rinuncia al procedimento di protezione internazionale – Il comma 2 e il periodo di lavoro pregresso – Il comma 2, le questioni procedurali e la scadenza del titolo di soggiorno

Asilo e protezione internazionale
LO STATUS DI RIFUGIATO: Appartenenza ad un particolare gruppo sociale – Opinioni politiche

LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA: D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. a) e b)– D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. c)

QUESTIONI PROCESSUALI: Effetto sospensivo del ricorso – Diritto di presentare la domanda di protezione internazionale e tutela cautelare – Domande reiterate – Sospensione feriale dei termini – Valutazione di credibilità – Dovere di cooperazione istruttoria – Paese di transito

PROTEZIONE UMANITARIA E PROTEZIONE SPECIALE: La nuova protezione speciale introdotta dal d.l. n. 130/2020. Prime questioni e applicazioni – La nuova protezione speciale nell’ambito del giudizio di impugnazione della revoca o del diniego di rinnovo del permesso umanitario – Protezione umanitaria, criteri di valutazione, dovere istruttorio e COI (art. 8 d.lgs. 25/2008) – Protezione umanitaria e povertà estrema – Protezione umanitaria e disastro ambientale – Protezione umanitaria e integrazione sociale – Protezione umanitaria e diritto all’unità familiare in presenza di figli minori – Protezione umanitaria e minore età al momento dell’ingresso in Italia – Protezione umanitaria e sfruttamento lavorativo – Protezione umanitaria e tratta degli esseri umani

I PROVVEDIMENTI EX REGOLAMENTO DUBLINO N. 604/2013 DUBLINO III

LE MISURE DI ACCOGLIENZA

Cittadinanza e apolidia
Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano. a) Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da cittadina italiana maritata a uno straniero con conseguente perdita della cittadinanza italiana per matrimonio. Incidenza delle sentenze costituzionali e di legittimità sull’accertamento della mancata perdita e sulla trasmissibilità dello status originario ai figli. b) Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano da parte di individui residenti in Brasile; richiesta in Italia all’ufficiale italiano di stato civile da parte di un procuratore speciale. Incidenza degli artt. 12 e 17 del d.p.r. 396/2000 e di un parere del Consiglio di Stato. Illegittimità di tale richiesta.

Famiglia e minori
FAMIGLIA: Minore affidato al fratello con atto notarile privato e possibilità di consentire al minore l’ingresso in Italia e il ricongiungimento con l’affidatario – In tema di ricongiungimento familiare, al fine di dimostrare l’autenticità del rapporto di filiazione è sufficiente il possesso di status che prescinde dal legame biologico e che non può essere rimesso in discussione solo sulla base di un’astratta inattendibilità degli atti di stato civile nel Paese d’origine – Nel bilanciamento tra il diritto all’unità familiare e la previsione di legge sull’effetto automatico della decadenza del soggiorno per assenza prolungata, il giudice deve tenere in considerazione non soltanto l’unità familiare, ma anche l’interesse preminente dei figli minori ai sensi dell’art. 13, co. 4, d.p.r. 394/1999 – Per il ricongiungimento del genitore ultrasessantacinquenne non c’è bisogno della prova di essere «a carico», mentre bisogna provare che non vi siano altri figli nel Paese d’origine (o altri figli che possano provvedere a un suo sostentamento). MINORI: Accertamento del carattere discriminatorio del mancato riconoscimento di un servizio ambulatoriale pediatrico pubblico accessibile gratuito equiparabile al pediatra di libera scelta a favore dei cittadini stranieri minori di età irregolarmente soggiornanti sia comunitari che extracomunitari – In tema di autorizzazione alla permanenza in Italia del genitore del minore ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, la valutazione prognostica deve avere ad oggetto l’accertamento della sussistenza di «gravi motivi» connessi allo sviluppo psico-fisico del minore, valutati caso per caso.

Acquisto della cittadinanza per elezione.

Acquisto della cittadinanza per matrimonio. a) Rigetto della domanda per pretesa sussistenza di comprovati motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica; irrilevanza dell’inserimento in una stabile realtà economica. b) Successione nel tempo delle norme sui termini di definizione dei procedimenti e sulla loro applicabilità ai procedimenti in corso.

Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. a) Rigetto a causa di precedenti penali. b) Difetto di motivazione nei confronti di precedenti penali di lieve entità. c) Rigetto a causa di contiguità a movimenti pericolosi per la sicurezza nazionale. d) Rigetto a causa di particolari fattispecie delittuose; esclusione di una lesione di diritti fondamentali.

Accertamento dell’apolidia.

Famiglia e minori
Criteri rilevanti per accertare la pericolosità sociale e la sussistenza di una vita familiare nel caso di decisione sulla spettanza di un titolo di soggiorno per motivi familiari

Carattere fittizio del matrimonio e diniego del permesso di soggiorno

Pericolosità sociale e inespellibilità dello straniero ex art. 19, co. 2, lett. c), d.lgs. n. 286/1998

MINORI: In tema di autorizzazione alla permanenza in Italia del genitore del minore ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, l’età prescolare del minore non osta a che lo stesso venga ritenuto sufficientemente integrato in Italia e quindi ad una valutazione di pregiudizio in caso di allontanamento dal territorio nazionale – Espulsione, trattenimento dello straniero e pendenza del ricorso ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 avanti al Tribunale per i minorenni.

Non discriminazione
Misure di contrasto alla povertà – Accesso agli alloggi pubblici – Contributo affitti – Incentivi occupazionali e residenza quinquennale – Assegni per il nucleo famigliare – Certificato di idoneità alloggiativa – Natura del diritto alla non discriminazione

Penale
L’archiviazione del cd. «caso Rackete» – L’inapplicabilità delle sanzioni amministrative applicate alle navi delle ONG sulla base del cd. decreto Salvini-bis in seguito alle modifiche operate dal cd. decreto Lamorgese


Osservatorio europeo

Atti di indirizzo
Programma della presidenza portoghese – Rimpatrio e riammissione – Rimpatri volontari e reintegrazione – Contrasto al traffico di esseri umani – COVID, restrizioni ai viaggi non essenziali nell’Unione europea

Atti adottati
Sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (Eurosur) – Trasmissione dati in materia di immigrazione e protezione internazionale

Proposte legislative
Certificato verde digitale per i cittadini di paesi terzi

Varie
Consultazione pubblica per la digitalizzazione delle procedure di visto – Guardia di frontiera e costiera europea (Frontex)

Osservatorio italiano

Rassegna delle leggi, dei regolamenti e dei decreti statali
Limitazioni agli ingressi degli stranieri durante lo stato di emergenza nazionale derivante dalla pandemia di Coronavirus – Proroga dei titoli di soggiorno durante lo stato di emergenza nazionale derivante dalla pandemia di Coronavirus – Aumento dei costi medi per il rimpatrio di lavoratori stranieri trovati in situazione di soggiorno irregolare – Nuove specifiche tecniche dei permessi di soggiorno e delle carte di soggiorno – Nuovo schema di capitolato di appalto per la fornitura di beni e servizi relativi alla gestione e al funzionamento dei Centri di accoglienza e dei Centri di permanenza per il rimpatrio – Piano nazionale per la ricerca ed il salvataggio in mare, edizione 2020

Rassegna delle circolari e delle direttive delle Amministrazioni statali
CITTADINI DI PAESI TERZI E ASILO: Le procedure per il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale: il Ministero dell’interno ne dà la seconda interpretazione illegittimamente restrittiva

INGRSSO E SOGGIORNO: Nuovo documento elettronico attestante il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e sue nuove durate – Soggiorno permanente in Italia dei cittadini britannici dopo il recesso del Regno Unito dalla UE – La legislazione applicabile nelle fattispecie del distacco e dell’esercizio di attività in due o più Stati dopo la pubblicazione dell’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra l’UE e la Comunità europea dell’energia atomica, da una parte, e il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, dall’altra (TCA) – Emergenza sanitaria – Ingresso infermieri professionali

EMERSIONE: Nuova interpretazione illegittimamente restrittiva dei requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno a seguito di emersione

Recensioni e materiali di ricerca

Recensione a:

Francesca P. Albanese, Lex Takkenberg, Palestinian Refugees in International Law (2nd Edition) , Oxford University Press, 2020, pp. 608.
di Giuseppe Morgese

Maria Eugenia Cadeddu, Migration Stories. Linguaggi, culture, identità, Roma, Carocci Editore, 2020.
di Marco Accorinti

Segnalazioni bibliografiche

Rapporti, riviste e siti internet

La Rivista “Diritto Immigrazione e Cittadinanza”
La rivista, uscita per la prima volta nel 1999, promossa da ASGI e Magistratura Democratica, si propone come strumento di informazione e approfondimento, prevalentemente giuridico ma non solo, sui temi dell’immigrazione e dell’asilo e si rivolge a tutti i soggetti che operano nel settore (operatori giuridici, associazioni, enti locali, sindacati, scuole, università, uffici pubblici, ecc.). Scopo della Rivista è di dotare di strumenti conoscitivi coloro che operano nel settore dell’immigrazione, per meglio svolgere le funzioni di tutela e rappresentanza nei rapporti con la pubblica amministrazione ed in sede giurisdizionale. Ferma la sua impostazione, la Rivista, divenuta quadrimestrale col passaggio dalla versione cartacea , pubblicata dalla casa editrice Franco Angeli al sito on line con i contenuti gratuitamente disponibili dal 2017, ha inteso accentuare la sua vocazione all’analisi e all’approfondimento sia con l’intento di contribuire, soprattutto sotto il profilo giuridico, alla comprensione di un fenomeno sempre più complesso, sia con l’ambizione di porsi come laboratorio di riflessione e di confronto per politiche del diritto ispirate a quei valori che la nostra Costituzione e le Carte internazionali sui diritti umani proclamano.

The post Pubblicato il n. 2/2021 della Rivista Diritto Immigrazione e Cittadinanza appeared first on Asgi.

Asilo, falsi miti e poteri divinatori. Così muore il diritto al contraddittorio

Se il giudice si sottrae all’obbligo di esame del richiedente sulla base di meri argomenti logici tratti dalla lettura del verbale di audizione della Commissione territoriale lede il diritto di difesa e la possibilità di tutela giurisdizionale del diritto di asilo subisce una severa lesione, tanto più dopo l’abolizione dell’appello.

 

di Maurizio Veglio
avvocato del Foro di Torino

 


La sentenza della Cassazione n. 1681/2019


1. L’esclusione dell’audizione dai giudici di merito alla Cassazione

La sentenza n. 1681/2019 della Corte di cassazione trae origine dal ricorso di un richiedente asilo maliano contro la pronuncia della Corte di appello di Torino che ne aveva respinto la domanda di protezione internazionale.

Alla base della richiesta di asilo il ricorrente manifestava il timore di subire nuove ritorsioni da parte dei fratelli del padre defunto, già protagonisti di episodi di violenza ai suoi danni, che pretendevano il matrimonio del richiedente con una ragazza individuata dagli stessi.

La sentenza della Corte di appello aveva respinto la domanda di protezione internazionale in quanto: «Narra il signor (omissis) che i problemi con i fratelli del padre sarebbero sorti dopo la morte di quest’ultimo (quindi dopo il 2009) ma specifica che il motivo per il quale sarebbe stato vittima delle azioni violente degli zii e causa della sua fuga (il suo rifiuto di sposare la donna destinata al fratello) si sarebbe verificato nel corso dell’anno 2011. Nella narrazione dell’episodio di cui sarebbe rimasto vittima il fratello, a fronte di dettagli assai precisi (pag. 2 dell’atto di citazione in appello) si indica una datazione estremamente generica (“…nel 2011, nel corso della mattinata…”) e tale da escludere la possibilità di una seria valutazione nel complesso del racconto; come pure del tutto contraddittoria nel complessivo impianto narrativo, risulta l’affermazione che il signor (omissis) sarebbe cresciuto senza genitori».

La Corte di appello di Torino rifiutava inoltre l’audizione personale del richiedente in quanto «non si appalesano esigenze di chiarimento o specificazione sia perché la vicenda dedotta è chiara nei sui contenuti dirimenti (il signor (omissis) sarebbe scappato dal suo Paese, il Mali, regione di Kayes, a causa delle minacce ricevute dagli zii paterni per il suo rifiuto a sposare una ragazza già destinata ad un suo fratello defunto), sia perché i dati oggettivi temporali evidenziati (la sua data di nascita, la data della morte dei genitori e del fratello, il tempo delle minacce causa della fuga, il matrimonio e la nascita dei tre figli) e la affermazione resa in Commissione in chiusura dell’intervista sono circostanze precise e, di per loro, non “dettagliabili” e, a parere della Corte, non cronologicamente coerenti e, perciò, non attendibili».

La difesa ricorreva per Cassazione sostenendo che l’incapacità di riferire con precisione il mese e il giorno di uno specifico episodio, peraltro collocato in termini cronologicamente congrui con l’intero impianto narrativo, non potesse da sola impedire la valutazione complessiva della vicenda e/o determinarne l’inattendibilità. Inoltre veniva contestata la mancata audizione personale e la violazione del diritto del richiedente di «spiegare l’eventuale assenza di elementi e/o le eventuali incoerenze o contraddizioni delle sue dichiarazioni» (art. 16, Dir. 2013/32/UE, cd. direttiva procedure).

Con una decisione senza precedenti, la Corte di cassazione afferma che il diritto al contraddittorio riconosciuto dalla direttiva procedure «riguarda la fase amministrativa della richiesta» e non troverebbe quindi applicazione in quella giudiziaria; inoltre «le contraddizioni presenti nella narrazione, ove non rilevate in quella sede [amministrativa, n.d.r.], dovranno essere spiegate – su iniziativa del difensore della parte – in sede di ricorso innanzi al tribunale: onde, ove tale rilievo sia mancato e il tribunale abbia posto a base della valutazione di non credibilità proprio quelle contraddizioni o incongruenze, la questione non può essere posta, per la prima volta, innanzi al giudice [d]i legittimità».

2. Il terremoto del 18 agosto 2017

La tesi dell’applicabilità del diritto al contraddittorio, nella peculiare versione prevista nella materia dell’asilo, alla sola fase avanti la Commissione territoriale suscita forti perplessità. A sostegno di tale interpretazione la suprema Corte richiama la nota sentenza C-348/16 (cd. Sacko) della Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale «ha escluso l’incompatibilità con il diritto eurounitario della normativa nazionale che consenta al giudice di respingere il ricorso avverso la decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale, senza procedere all’audizione del richiedente asilo, a condizione che egli abbia avuto la facoltà di sostenere un colloquio personale sulla sua domanda di protezione internazionale, che il verbale di tale colloquio redatto nel pregresso procedimento sia stato reso disponibile nella fase successiva e che il giudice adito con il ricorso possa disporre l’audizione personale, ove lo ritenga necessario».

Il significato dell’ascolto del richiedente asilo impone una diversa ricostruzione normativa ed ermeneutica. Il legislatore comunitario ha inserito il diritto al contraddittorio tra i Principi fondamentali e garanzie della cd. Direttiva procedure (Capo II, Dir. 2013/32/UE), e ha previsto che il diritto a un ricorso effettivo assicuri «l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto» (art. 46, par. 3), obiettivo difficilmente avvicinabile in assenza del confronto con il ricorrente. La stessa sentenza della Corte di giustizia, autentico mantra dei provvedimenti con cui numerosi tribunali nazionali escludono l’audizione personale, offre in realtà una valutazione più articolata, ricordando che una tutela giurisdizionale effettiva garantisce «segnatamente, i diritti della difesa, il principio della parità delle armi, il diritto di ricorso ad un giudice nonché la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare».

Con specifico riferimento dell’ascolto dello straniero, i giudici di Lussemburgo affermano che «l’assenza di audizione del richiedente nel corso di una procedura di ricorso come quella oggetto del capo V della direttiva 2013/32 integra una restrizione dei diritti della difesa, che fanno parte del principio della tutela giurisdizionale effettiva, sancito all’articolo 47 della Carta» [1]. Tali restrizioni possono giustificarsi solo qualora «rispondano effettivamente agli obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti». Nel delicato bilanciamento tra diritto di difesa e interesse alla speditezza delle procedure, i giudici di Lussemburgo non legittimano sempre e comunque il sacrificio dell’ascolto, ma lo giustificano nel caso di una richiesta di protezione internazionale «manifestamente infondata». Ciò che non ricorre nella fattispecie all’esame della Corte di cassazione.

Richiamando inoltre un canone fondamentale di buona amministrazione della giustizia e di tutela degli interessi individuali, la Corte di giustizia ricorda «la regola secondo cui il destinatario di una decisione ad esso lesiva deve essere posto in condizione di far valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata», e ciò allo scopo di «consentire, in particolare, che tale persona possa correggere un errore o far valere elementi relativi alla sua situazione personale tali da far sì che la decisione sia adottata o non sia adottata, ovvero abbia un contenuto piuttosto che un altro».

Rilievi di assoluta importanza sullo scenario nazionale, in cui la concreta tutela delle prerogative dei richiedenti inciampa sulle macerie lasciate dal terremoto del 18 agosto 2017 (data di entrata in vigore del rito deformato dalla legge n. 46/17), che ha abrogato il grado di appello e istituito un procedimento camerale a udienza residuale e contraddittorio cartolare. In questo quadro, limitare il diritto alla parola del richiedente alla fase amministrativa sollecita l’idea di una giustizia concretamente inaccessibile, di un tribunale sordo e indisponibile, di valutazioni astratte e velleitarie, dimentiche che l’ascolto del ricorrente è il miglior antidoto agli errori.

3. La riduzione matematica della realtà

Il secondo argomento avanzato dalla Corte arriva a minacciare in radice il concetto di ricorso effettivo previsto dalla direttiva procedure.

La tesi proposta muove dall’assunto per cui contraddizioni e incongruenze nelle narrazioni dei richiedenti asilo costituirebbero dati oggettivi, statici, rilevabili a priori dalla semplice lettura dei verbali di audizione. La Corte esige che qualora la Commissione non ne abbia ravvisato l’esistenza (ipotesi, a ben vedere, già intrinsecamente incoerente: come è possibile ignorare circostanze auto-evidenti?), le stesse «dovranno essere spiegate – su iniziativa del difensore della parte – in sede di ricorso innanzi al tribunale». Diversamente il giudice potrà negare la credibilità della vicenda richiamando «proprio quelle contraddizioni o incongruenze», senza alcun obbligo di sottoposizione al ricorrente.

In altre parole la Corte solidifica, reifica le nozioni di contraddizioni e incongruenze, suggerendo la possibilità di isolare dal contesto narrativo singole informazioni come altrettanti tasselli di un’operazione matematica, riducendo le biografie dei richiedenti a una serie di opposizioni binarie (vero/falso, dentro/fuori, prima/dopo); una volta estratti i dati, il loro confronto consentirebbe di individuare le incoerenze come altrettante soluzioni di un’equazione.

Il catalogo di vite racchiuse nei verbali delle Commissioni territoriali offre al contrario un’infinita lista di incognite prive di soluzione. È “congruente” scoprirsi omosessuali nel Punjab pakistano all’età di 15 anni? È “plausibile” affrontare il Sahara lasciando indietro moglie e figli? È “coerente” che un cittadino iraniano si professi cristiano senza essere stato battezzato? È “contraddittorio” che una donna somala parta per la Libia consapevole che lo stupro è eventualità pressoché certa? O che una giovane ragazza nigeriana si consegni volontariamente ai propri aguzzini? Optando per una concezione algebrica delle narrazioni, la tesi immagina certezze là dove regnano l’opinabile e l’imprevedibile.

La sentenza n. 1681/19 legittima inoltre in sede giudiziaria una delle più evidenti patologie della fase amministrativa, il second-guessing, l’indovinarsi a vicenda, quel groviglio di pregiudizi e diffidenze che «contribuisce alla circolazione di 2 distinti meta-discorsi sulla credibilità» [2]. Un’ampia letteratura scientifica ha indagato le sottili trame psicologiche che orientano la raccolta delle biografie dei richiedenti asilo, svelando componenti linguistiche, storiche, gerarchiche e ambientali [3] (già Primo Levi ammoniva sulla «illusione della neutralità dell’ascolto» [4]).

Interrogato dalla complessità – cosa significa subire una maledizione? Disobbedire all’ordine del padre? O sentire «i vermi sotto la pelle»? – il giudice della protezione può affidarsi allo studio, all’approfondimento e al confronto con il richiedente, vale a dire le più sofisticate armi giuridiche, oppure rifugiarsi nei «pregiudizi quantofrenici» [5] di Felwine Sarr, «l’ossessione cioè di numerare tutto, valutare, quantificare, mettere in equazione» concetti irriducibili, attraverso meccanismi di matematica giuridica sconosciuti al dato normativo e contrari all’intera letteratura specialistica.

L’argomento della Corte di cassazione testimonia la persistente difficoltà di immaginare un giudice civile chiamato a un ruolo attivo nella causa e titolare di un anomalo potere-dovere di cooperazione istruttoria, nozioni peraltro ampiamente acquisite dalla stessa giurisprudenza di legittimità [6]. Secondo la sentenza in esame, invece, è il difensore del richiedente a doversi fare interprete autentico e divinatore del pensiero del tribunale [7], anticipando un’analisi potenzialmente infinita – e concretamente nemmeno immaginabile – di ogni singolo dato di fatto, circostanza o affermazione emersi nel corso dell’audizione. Una difesa bulimica, onnivora, delirante e inesorabilmente votata al fallimento («Credere è monotono», sosteneva Oscar Wilde, «Dubitare, invece, è profondamente appassionante») [8].

4. Appuntamento al “foyer”

La tesi avanzata dalla Corte di cassazione avalla una brutalità processuale. Il rigetto della domanda di asilo potrebbe infatti essere motivato attraverso argomenti scaturiti dalle dichiarazioni del richiedente, ma mai sottoposti al contraddittorio con quest’ultimo perché non contestati dalla Commissione territoriale, non preventivamente-analizzati-e-preventivamente-confutati dalla difesa, né sollevati dal giudice nel corso della causa. Senza, ovviamente, possibilità di appello nel merito.

Oltre a ferire un primordiale sentimento di giustizia, l’ipotesi tradisce l’essenza stessa della protezione internazionale – il dialogo tra il richiedente e il suo giudice – lasciando il primo senza domande e il secondo senza risposte. Leggendo un verbale di audizione, un tribunale potrebbe ritenere incongruo che un richiedente dichiari di avere vissuto in Libia con altri connazionali presso un “foyer”, faticando ad immaginare gruppi di migranti rifugiati nelle anticamere di teatri o cinema disseminati per il Paese. Il mancato ascolto impedirebbe al giudice di apprendere che “foyer” (nel senso etimologico di focolare) è il termine con cui i migranti francofoni indicano gli edifici fatiscenti e le baracche in cui trovano riparo, in condizioni di miseria e marginalità, nei sobborghi delle città libiche. Tipica questione, come ricorda la sentenza n. 1681/19, che «non può essere posta, per la prima volta, innanzi al giudice [d]i legittimità».

Il futuro dirà se si tratta di un incidente di percorso. Nell’immediato la sentenza ha il pregio di mostrare lo scarto tra le affermazioni di massima tutela del richiedente asilo e il quotidiano diniego di tale aspirazione, così profondo da spingersi a invocare la generale disapplicazione di un principio cardine del giusto processo [9].

O si accetta la sfida della complessità e del dialogo, non tollerando, né concedendo, ma riconoscendo il diritto al contraddittorio – la prise de parole del richiedente – o migliaia di altre decisioni riempiranno gli scaffali di una nuova biblioteca coloniale [10].

 

Note

[1] Il riferimento è alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cd. Carta di Nizza).
[2] C. Bohmer, A. Shuman, Producing epistemologies of ignorance in the political asylum application process, in Identities: Global Studies in Culture and Power, 2007, p. 613.
[3] R. Beneduce, The Moral Economy of Lying: Subjectcraft, Narrative Capital, and Uncertainty in the Politics of Asylum, in Medical Anthropology, 2015, pp. 551-571; J. Blommaert, Language, Asylum, and the National Order, in Current Anthropology, 2009, Vol. 50, No. 4, pp. 415-441; F. Crépeau, Droit d’asile: de l’hospitalité aux contrôles migratoires, Bruxelles, Bruylant, 1995, p. 283; D. Fassin, E. D’Halluin, The Truth from the Body: Medical Certificates as Ultimate Evidence for Asylum Seekers, in American Anthropologist, New Series, 2005, Vol. 107, No. 4, pp. 597- 608; N. Gill, A. Good, Asylum Determination in Europe. Ethnographic Perspectives, Palgrave Macmillan, 2018; L. Malkki, Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistoricization, in Cultural Anthropology, 1996, Vol. 11, No. 3, pp. 377-404; A. Pereltsvaig, Languages of the World: An Introduction, Cambridge University Press, 2012; C. Rousseau, F. Crepeau, P. Foxen, F. Houle, The Complexity of Determining Refugeehood: A multidisciplinary Analysis of the Decision-making Process of the Canadian Immigration and Refugee Board, in Journal of Refugee Studies, 2002, Vol. 15, No. 1, Oxford University Press; B. Sorgoni, Chiedere asilo. Racconti, traduzioni, trascrizioni, in Antropologia, 2013 – XIII, 15, pp. 131-151; M. Ticktin, Where ethics and politics meet: The violence of humanitarianism in France, in American Ethnologist, 2006, Vol. 33, No. 1, pp. 33-49; J. Valluy, Rejet des exilés. Le grand retournement du droit de l’asile, Editions du Croquant, 2009.
[4] P. Levi, L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 2016.
[5] F. Sarr, Afrotopia, Edizioni dell’asino, Roma, 2018.
[6] Tra le numerose sentenze si segnalano Cass. civ., 17576/10, 24544/11, 26841/11 e 16221/12.
[7] Dal 18 agosto 2017 il Tribunale competente per le cause di protezione internazionale decide in composizione collegiale (art. 3, comma 4-bis, dl 13/17, conv. dalla legge n. 46/17).
[8] L’inequivoco dato normativo (art. 3, d.lgs 251/07) pone a carico del richiedente – e del difensore, in fase contenziosa – l’onere di allegare «tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda», mentre sull’autorità giudicante, amministrativa come giudiziaria, incombe l’obbligo di svolgere l’esame «in cooperazione con il richiedente».
[9] «Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione» (art. 101, comma 2, cpc).
[10] V.Y. Mudimbe, L’invenzione dell’Africa, Milano, Meltemi, 2017.


 

L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica

 

Foto di Sang Hyun Cho da Pixabay

The post Asilo, falsi miti e poteri divinatori. Così muore il diritto al contraddittorio appeared first on Asgi.

L’iscrizione anagrafica e i richiedenti asilo dopo il dl 113/2018

L’obbligo dei comuni di procedere alla iscrizione anagrafica del richiedente asilo non è venuto meno con l’entrata in vigore del decreto sicurezza. Un commento all’interpretazione costituzionalmente orientata nel provvedimento del Tribunale di Firenze

di Gabriele Serra
giudice, Tribunale civile di Cagliari


Tribunale di Firenze, ordinanza del 18 marzo 2019, n. 361


1. Premessa. Il nuovo comma 1-bis dell’art. 4 d.lgs n. 142/2015

L’ordinanza ex art. 700 cpc del Tribunale di Firenze del 18 marzo 2019 prende posizione in ordine ad una delle tante problematiche scaturite dal cd. decreto sicurezza dl. n. 113/2018, convertito con modificazioni nella legge n. 132/2018 e, segnatamente, in ordine al diritto del richiedente il riconoscimento della protezione internazionale ad ottenere l’iscrizione nel registro anagrafico della popolazione residente.

Senza potersi dilungare in ordine all’istituto in esame, i.e. quello dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, è sufficiente ricordare che l’art. 1 del all’art.1 del dPR 30 maggio 1989, n. 223 lo definisce come «la raccolta sistematica dell’insieme delle posizioni relative alle singole persone, alle famiglie ed alle convivenze che hanno fissato nel comune la residenza, nonché delle posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio».

Ora, l’art. 13 del dl n. 113/2018 ha aggiunto, all’art. 4 del d.lgs n. 142/2015, il comma 1-bis secondo cui il permesso di soggiorno per richiesta di asilo «»non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».

In applicazione di tale disposizione, venendo al caso concreto sottoposto all’attenzione del giudice fiorentino, il comune di Scandicci aveva opposto il diniego all’iscrizione nei registri anagrafici ad un soggetto di nazionalità somala, il quale era regolarmente soggiornante in Italia, avendo richiesto il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale e/o umanitaria, argomentando altresì, in sede processuale, in relazione al contenuto di due recenti circolari del Ministero dell’interno n. 15 del 18 ottobre 2018 e n. 83744 del 18 dicembre 2018 [1].

È avverso tale diniego che il richiedente asilo ha richiesto l’adozione di un provvedimento giurisdizionale d’urgenza perché venisse ordinato al comune l’iscrizione all’anagrafe, ritenendo in particolare che il requisito del regolare soggiorno nel territorio dello Stato potesse essere accertato mediante documenti alternativi al permesso di soggiorno rilasciato ai soggetti che hanno presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale, quali, ad esempio, il modello C3 di richiesta asilo presentato in questura, la ricevuta rilasciata da quest’ultima per attestare il deposito della richiesta di soggiorno o la scheda di identificazione redatta dalla questura.

Così inquadrata la problematica, è di interesse sottolineare sin da subito come il comune resistente abbia rappresentato la necessità che nel procedimento venisse sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale in relazione all’art.13 del cd. decreto sicurezza, per violazione degli artt. 2, 3, 10, 16, 77, 97, 117 e 118 Cost.

Il Tribunale di Firenze ha, in senso contrario, ritenuto di poter accogliere il ricorso senza dover sollevare la segnalata questione di legittimità costituzionale, esprimendosi, come si vedrà, nel senso della possibilità di offrire una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in parola.

 

2. L’ordinanza del Tribunale di Firenze in causa RG N. 361/2019 del 18 marzo 2019

In tal senso, per quanto qui rileva, l’articolato provvedimento del giudice toscano muove dal superamento di quanto emerge dalla relazione introduttiva al disegno di legge di conversione del predetto dl per cui «l’esclusione dall’iscrizione anagrafica si giustifica per la precarietà del permesso per richiesta asilo e risponde alla necessità di definire preventivamente la condizione giuridica del richiedente».

In tal senso, il Tribunale ha fatto proprie le considerazioni dottrinali e giurisprudenziali per cui, ai sensi dell’art. 12 delle Preleggi, il riferimento ivi contenuto all’«intenzione del legislatore» tra i criteri ermeneutici, non possa essere ricostruito come «“volontà politica” di cui la norma è, storicamente, un prodotto», bensì come «testo legislativo inserito nell’insieme dell’ordinamento giuridico» [2].

Ritenuto perciò irrilevante l’argomento interpretativo dei lavori preparatori, il Tribunale, analizzando il contenuto letterale del nuovo comma 1-bis citato, sottolinea come esso si riferisca al permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale quale titolo per l’iscrizione anagrafica e che, tuttavia, il sistema normativo di riferimento dalla stessa disposizione richiamato (i.e. il dPR n. 223 del 1989 e l’art. 6, comma 7 del T.U.I.), non richieda alcun “titolo” per l’iscrizione anagrafica, ma solo una determinata condizione soggettiva, i.e. quella di essere regolarmente soggiornante nello Stato.

Di tal che, riconoscendo che l’iscrizione anagrafica ha natura di attività amministrativa a carattere vincolato, in relazione alla quale il privato ha una posizione di diritto soggettivo, evidenzia come «l’iscrizione anagrafica registra la volontà delle persone che, avendo una dimora, hanno fissato in un determinato comune la residenza oppure, non avendo una dimora, hanno stabilito nello stesso comune il proprio domicilio», sulla base non di titoli, ma delle dichiarazioni egli interessati o degli accertamenti ai sensi degli artt. 13, 15, 18-bis e 19 del citato dPR n. 223/1989.

Nello stesso senso argomenta con riferimento all’art. 6, 7 comma del T.U.I., che non è stato in alcuna misura modificato dal dl 113, sulla base del quale «le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione. In ogni caso la dimora dello straniero si considera abituale anche in caso di documentata ospitalità da più di tre mesi presso un centro di accoglienza».

Così, la pronuncia in esame ha ritenuto perciò che il nuovo comma 1-bis dell’art. 4 d.lgs n. 142/2015 non possa essere interpretato nel senso di aver introdotto un divieto, neppure implicito, di iscrizione anagrafica per i soggetti che abbiano presentato richiesta di protezione internazionale, poiché, per far ciò, il legislatore avrebbe dovuto modificare il citato art. 6, comma 7 T.U.I., anche nella parte in cui considera dimora abituale di uno straniero il centro di accoglienza ove sia ospitato da più di tre mesi [3].

In adesione alla ricostruzione fatta della natura dell’attività amministrativa e della situazione giuridica soggettiva del richiedente, il Tribunale, chiarisce ulteriormente come il concetto di “titolo” rilevante ai fini del riconoscimento della situazione giuridica soggettiva è «il fatto o l’atto giuridico dal quale deriva l’acquisto della stessa da parte del soggetto giuridico», non già il documento che comprova tale atto o fatto.

Di tal che, posto che ai sensi dell’art. 7 del d.lgs n. 25/2008 il richiedente asilo è regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato, deve ritenersi che la presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale determini la sussistenza del “titolo” per l’iscrizione anagrafica in capo al richiedente, il quale, può, allora, essere comprovato con gli atti inerenti l’avvio del procedimento di riconoscimento della protezione.

In ultimo, il Tribunale si fa carico altresì dell’obiezione che si fonderebbe sulla sostanziale interpretatio abrogans del nuovo comma 1-bis in esame, che rimarrebbe privo di significato.

Il senso della disposizione viene ricavato dal combinato disposto di essa con l’art. 13 lett. c) del dl 113, che ha abrogato la previsione dell’utilizzo per i richiedenti asilo dell’istituto della convivenza anagrafica contenuta nell’art. 5-bis dello stesso d.lgs 142/2015, introdotto dalla legge 13 aprile 2017, n. 46 che ha convertito il decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13.

In forza di tale disciplina invero, il richiedente asilo ospitato nei centri di accoglienza era iscritto all’anagrafe sulla base della sola comunicazione del responsabile della convivenza, che determinava perciò una procedura semplificata e accelerata per il titolare di permesso di soggiorno richiedente la protezione.

Tale procedura perciò prescindeva tanto dal requisito della permanenza dei tre mesi nel centro, quanto da quello della dichiarazione dell’interessato o degli accertamenti dell’amministrazione.

Conclude perciò il Tribunale che l’art. 13 del cd. decreto sicurezza «sancisce l’abrogazione, non della possibilità di iscriversi al registro della popolazione residente dei titolari di un permesso per richiesta asilo, ma solo della procedura semplificata prevista nel 2017 che introduceva l’istituto della convivenza anagrafica, svincolando l’iscrizione dai controlli previsti per gli altri stranieri regolarmente residenti e per i cittadini italiani».

In una sorta di moto circolare, si può infine tornare al punto di partenza dell’analisi condotta sulla assai articolata decisione, i.e. quello della compatibilità costituzionale e della sollevata questione da sottoporre alla Corte da parte del comune resistente.

Il Tribunale evidenzia come l’interpretazione proposta consenta di leggere la disposizione in armonia con le norme di rango costituzionale che regolano la presente fattispecie e, segnatamente, con riferimento all’art. 16 Cost., agli artt. 2, 3 4 e 38 Cost., alla luce in particolare dei diritti che sono connessi all’iscrizione nel registro della popolazione residente, nonché del principio di uguaglianza tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti, anche ai sensi dell’art. 14 Cedu, rilevante quale norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.

Ricorda infatti il Tribunale come «interpretare nel segno della Costituzione non è compito esclusivo della Corte Costituzionale ma obbligo che s’impone a diversi livelli, ed in particolare nei confronti del giudice (oltre che dell’amministrazione e, prima ancora, del legislatore, nella sua opera di svolgimento e attuazione della Costituzione), con l’unico limite rappresentato dal divieto di disapplicazione».

 

3. Osservazioni sparse in tema di criteri interpretativi della legge e diritto d’asilo

Il provvedimento esaminato offre numerosi spunti di interesse, tanto a livello generale, quanto di carattere strettamente inerente la problematica trattata.

Seguendo la tassonomia sopra esaminata, il Tribunale ha correttamente, ad avviso di chi scrive, fatto applicazione dei consolidati approdi in ordine alla rilevanza del criterio interpretativo dell’intentio del legislatore.

Sul punto, la più autorevole dottrina, ha da tempo fatto rilevare come l’interprete, anche laddove sia realmente possibile ricostruire l’intenzione del legislatore, non può e non deve ritenersi vincolato ad attenersi ad essa, bensì «i risultati di questo genere di attività interpretativa devono essere contemperati con quelli dell’interpretazione sistematica tendente a dare coerenza all’ordinamento giuridico considerato nel suo complesso» [4], nonché in relazione alle norme ed ai principi costituzionali [5].

Ma, a ben vedere, nel caso che occupa, potrebbe addirittura considerarsi sufficiente a considerare irrilevante quanto riportato nella relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del dl 113 anche la più restrittiva e risalente tesi proposta da Vezio Crisafulli, il quale, nel ritenere che «la motivazione degli atti legislativi ha precisamente per effetto di rivelare autenticamente, e perciò inoppugnabilmente, la vera intenzione del legislatore ed in conseguenza di rendere molto più rigido di quel che di regola non sia negli altri casi l’obbligo dell’interprete, conferendo all’opera di esso un particolare carattere che bene potrebbe dirsi, in un certo senso, quasi meccanico» [6], tuttavia si riferiva, come lui stesso evidenziava, alla motivazione in senso proprio della legge, chiarendo che i lavori preparatori delle leggi, e in particolare quelle che Crisafulli chiama le «relazioni ministeriali», possono costituire unicamente «motivazione in senso improprio e non tecnico», in quanto non provengono dallo stesso soggetto dal quale proviene l’atto motivato, quest’ultimo essendo imputabile alle camere, mentre le relazioni sono opera del ministro proponente [7].

Ora, con riferimento al caso in esame, una parte della dottrina sembra aver ritenuto, ancorché in chiave aspramente critica, di non poter superare una chiara ratio legis volta alla esclusione della possibilità per i richiedenti asilo di ottenere l’iscrizione anagrafica [8].

Tuttavia, ed è la direzione prescelta anche dal Tribunale di Firenze, altra dottrina aveva già adombrato, nel rilevare l’assenza di un esplicito divieto di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo nella norma in parola, la necessità di prescindere dalle intenzioni del legislatore “storico” nell’attività di interpretazione della predetta disposizione [9], il che è stato ancor più chiaramente sostenuto da chi ha richiamato, al fine di negare rilevanza alla volontà ministeriale e alle circolari, l’art. 101, comma 2 Cost. [10].

Dal condivisibile superamento del criterio della ratio legis (rectius: della supposta volontà politica del ministro proponente), irrilevante sul piano della interpretazione della norma, appare nuovamente del tutto condivisibile l’interpretazione letterale e, soprattutto, sistematica, condotta dal Tribunale di Firenze, in linea, anche sotto questo profilo, con quanto prospettato dalla prima dottrina sul punto.

In tal senso infatti, coglie nel segno l’opzione prospettata di una lettura della nuova disposizione che sia coerente con l’intero apparato normativo nella quale è inserita e, in particolare, la lettura in combinato disposto tanto con le norme di settore (il dPR n. 223 del 1989 e l’art. 6, comma 7 del T.U.I.), quanto con quelle di carattere generale (l’art. 43 cc), valorizzando il criterio interpretativo sistematico, che già la più attenta dottrina, nel rilevare come tale criterio sia tra i più utilizzati, ha evidenziato come sia idoneo «a preservare sia la coerenza logica, sia la congruenza (l’armonia) assiologica dell’ordinamento» [11].

In aggiunta, si può evidenziare come la decisione citata appaia altresì coerente, pur non facendone esplicita menzione, con la ricostruzione della situazione giuridica soggettiva dei soggetti che abbiano inoltrato richiesta di protezione internazionale e/o umanitaria fatta propria dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 4890/2019, la quale, come noto, ha escluso che il dl 113/2018 possa applicarsi ai procedimenti amministrativi già iniziati davanti alle Commissioni territoriali o ai giudizi in corso avverso i provvedimenti di accertamento o diniego del diritto.

Nel far ciò invero, la Corte aveva valorizzato «la qualificazione giuridica di diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale» del diritto d’asilo e la conseguente «natura meramente ricognitiva dell’accertamento da svolgere in sede di verifica delle condizioni previste dalla legge» concludendo perciò che «il diritto soggettivo, nella specie, è preesistente alla verifica delle condizioni cui la legge lo sottopone» [12].

Di tal che, è in piena coerenza logico-giuridica, con tale ricostruzione, ancorché non esplicitata, che il Tribunale di Firenze ha evidenziato come siano le situazioni giuridiche soggettive facenti capo ai soggetti a determinare le conseguenze giuridiche che la legge riconnette loro e non già il possesso o meno dell’uno o dell’altro documento. In tal senso, anche l’attività amministrativa volta ad iscrivere una persona nelle liste anagrafiche è perciò da qualificarsi come attività meramente ricognitiva, per usare le parole della Cassazione, dovendo unicamente la P.A. verificare che il soggetto possegga i requisiti richiesti dalla legge.

Con tale decisione, si arricchisce perciò il panorama giurisprudenziale che definisce le questioni inerenti i rapporti tra la normativa amministrativa, che potremmo definire “di attuazione”, e il diritto d’asilo sulla base della natura giuridica del diritto facente capo a chi richiede il riconoscimento del diritto d’asilo nelle sue diverse forme previste dalla legge, muovendo dalla sua natura di diritto fondamentale e costituzionalmente garantito, di fronte al quale la pubblica amministrazione non è titolare di potere discrezionale, bensì, secondo lo schema tradizionale norma-fatto, deve limitarsi a verificare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto e delle conseguenze previste dalla legge [13].

Oltre alla già citata decisione della Corte di cassazione, ci si riferisce in particolare all’orientamento della giurisprudenza di merito che ha ritenuto illegittimo il diniego del questore di rilascio del permesso di soggiorno per mancata esibizione del passaporto in seguito al riconoscimento del diritto d’asilo, poiché, una volta accertato il diritto in sede amministrativa o giurisdizionale, in capo al questore non residua alcun margine di apprezzamento circa la posizione giuridica soggettiva del richiedente [14].

Ad avviso di chi scrive perciò, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza di merito e di legittimità, stanno contribuendo a fornire un criterio guida atto a far luce sui, numerosi, profili oscuri che possono sorgere in ordine all’applicazione della legislazione in tema di protezione internazionale, rispetto ai quali non si può prescindere dal riconoscimento della natura di diritto fondamentale all’asilo in capo a chi si venga a trovare in una delle situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 10, 3 comma Cost. e, rispetto alle quali, l’attività amministrativa prima e giurisdizionale poi, si pongono in termini di mero accertamento di essa.

 

4. Conclusioni in tema di interpretazione costituzionalmente orientata

Quanto alla compatibilità costituzionale dell’art. 13 del dl n. 113/2018, una parte della dottrina che si era interrogata sul tema, aveva evidenziato una soluzione alternativa, in particolare con riferimento ai diritti e alle prestazioni a cui è riconosciuto l’accesso ai soggetti iscritti all’anagrafe dei residenti:

1) ritenere che ogni norma che contempli il requisito della «residenza anagrafica» vada letta, nei riguardi del richiedente asilo, nel senso di «domicilio», valorizzando il disposto dell’art. 5, 3 comma del d.lgs n. 142/2015 a mente del quale «l’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio»;

2) ritenere incostituzionale l’esclusione del richiedente asilo dalla residenza anagrafica, perché lo priverebbe di diritti che la legge, anche a livello europeo, riconosce ai soggetti regolarmente soggiornanti, dimostrando peraltro di preferire la prima ipotesi perché idonea a valorizzare il contenuto del citato art. 5, 3 comma d.lgs n. 142/2015 in chiave costituzionalmente orientata [15].

La soluzione alternativa offerta dalla citata dottrina, come peraltro anticipato sopra, è necessitata dal postulato per cui non sarebbe stato possibile interpretare la novella nel senso di consentire comunque l’iscrizione anagrafica al richiedente asilo, poiché espressamente escluso dalla legge, derivandone perciò la necessità di offrire soluzioni diverse al problema dell’accesso ai diritti connessi all’iscrizione nel registro anagrafico dei residenti.

Altra dottrina, in senso solo parzialmente conforme, pur ritenendo possibile offrire una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 13 cit., nel senso di considerare comunque possibile l’iscrizione del richiedente asilo all’anagrafe, per le motivazioni già sopra illustrate, aveva comunque valorizzato, in via potremmo dire subordinata, anch’essa il disposto dell’art. 5, 3 comma d.lgs n. 142/2015, argomentando che, laddove si fosse ritenuta la norma ostativa all’iscrizione all’anagrafe del richiedente asilo, nondimeno allo stesso sarebbero dovuti essere garantiti tutti i diritti connessi a tale situazione, per effetto della formulazione appunto dell’art. 5, 3 comma cit. [16].

Come detto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto di poter fornire una interpretazione della disciplina novellata che non esclude il diritto del richiedente asilo ad essere iscritto nel registro dell’anagrafe, ritenendo in particolare che, in caso contrario, la disciplina si sarebbe posta in contrasto con l’art. 16 Cost. e, con riferimento ai profili esposti dalla citata dottrina, con gli artt. 2, 3, 4 e 38 Cost.

In tal senso, come peraltro già paventato dal sopra citato lavoro scientifico [17], il giudice fiorentino ha ritenuto la formulazione dell’art. 5, comma 3 cit. eccessivamente generica ed indeterminata, come tale inidonea a superare le disposizioni che prescrivono il requisito della residenza anagrafica per l’accesso ai benefici previsti.

L’interpretazione dell’art. 13 allora, ottenuta mediante l’applicazione (o l’esclusione) dei criteri ermeneutici sopra richiamati, si impone ancor di più alla luce del dovere di interpretazione della legge in senso costituzionalmente orientato.

Sul punto, sin dalla capostipite sentenza della Corte costituzionale, 22 ottobre 1996, n. 356, è consolidato il principio per cui «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice decida di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» [18].

D’altronde, anche la più recente dottrina ha ben ricordato che «interpretare, nel segno della Costituzione, non è, infatti, compito esclusivo della Corte costituzionale, ma obbligo che s’impone a diversi livelli, specialmente nei confronti del giudice (ma anche dell’amministrazione e, prima ancora, del legislatore nella sua opera di svolgimento e attuazione della Costituzione)» [19].

Nondimeno, si deve ritenere pienamente condivisibile il richiamo fatto dal Tribunale di Firenze ad un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale cui sarebbe esposta la norma se non si procedesse nel senso interpretativo proposto, i.e. la violazione dell’art. 14 Cedu, il quale si pone come norma di costituzionalità interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.

Tale norme vieta qualsiasi discriminazione, anche quella inerente l’origine nazionale, nell’accesso ai diritti e che, nell’interpretazione datane dalla Corte Edu, pur nel sottolinearne il carattere relazionale e non autonomo del principio, va interpretata nel senso di ritenere necessarie «considerazioni molto forti potranno indurre a far ritenere compatibile con la Convenzione una differenza di trattamento fondata esclusivamente sulla nazionalità» [20].

Un ulteriore elemento può infine essere evidenziato, non utilizzato dall’ordinanza del Tribunale di Firenze, in ordine ai diversi referenti normativi che possono venire in rilievo nel caso di specie e che, certamente, pone questioni di rapporto tra le fonti attualmente assai dibattute.

Ci si intende riferire al disposto dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cd. Carta di Nizza, che, specularmente all’art 14 Cedu, prevede che «è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. Nell’ambito d’applicazione del Trattato che istituisce la Comunità europea e del Trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi».

Non vi è modo di dilungarsi sulla problematica scaturita da alcune recenti pronunce della Corte costituzionale in ordine al rapporto tra l’incidente di costituzionalità e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia o disapplicazione della legge interna laddove emerga il possibile contrasto tra la norma legislativa e, da un lato, norme costituzionali, dall’altro, norme di cui alla Carta di Nizza [21].

Sul punto, tuttavia, non può non farsi menzione della suggestione per cui potrebbe farsi diretta applicazione dell’art. 21 Carta di Nizza in subiecta materia, avendo oggi le disposizioni della CDFUE, ai sensi dell’art. 6, par. 1 del TUE, lo stesso valore giuridico dei Trattati e rispetto alla quale in dottrina si è già valorizzata la «sua connessa idoneità a produrre effetto diretto nell’ordinamento degli stati membri, anche a costo di determinare la disapplicazione di eventuali norme di diritto interno contrastante, senza che il giudice nazionale debba, né possa, attendere la rimozione di queste ultime da parte della propria Corte costituzionale» [22].

In questa direzione, la Corte di giustizia ha anche recentemente avuto modo di affermare come l’art. 21 della Carta − ed il principio di non discriminazione − da esso portato abbia carattere imperativo in quanto principio generale dell’Unione e, perciò, il giudice nazionale è tenuto a garantire ai singoli la tutela giuridica promanante da tale disposizione, anche disapplicando all’occorrenza la normativa nazionale contraria [23].

Tali considerazioni, ancorché con riferimento all’art. 50 CDFUE, sono peraltro state fatte proprie in giurisprudenza dalla Corte di cassazione penale, che ha esplicitamente statuito che «il suo inserimento nella Carta di Nizza, tra i diritti fondamentali dell’Unione europea, può assicurargli valore di principio generale nell’ambito del diritto europeo dell’Unione, ponendosi per i giudici nazionali come norma vincolante e funzionale alla realizzazione di uno spazio giudiziario europeo in cui venga ridotto il rischio di conflitti di competenza» [24].

E allora, in conclusione, forse proprio nella materia della protezione internazionale e del diritto d’asilo, potrebbe ben esplicarsi il ruolo del giudice comune quale giudice europeo, chiamato, anche alla luce dei valori su cui si fonda l’Unione ex art. 2 TUE, «al riconoscimento di diritti universali, come tali rivendicabili (anche) nei confronti degli Stati da chi non sia cittadino europeo» [25].

 

Note

[1] Per quanto qui interessa, la Circolare del Ministero dell’interno n. 15/2018, afferma che «dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni il permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale di cui all’art. 4, comma 1 del citato d.lgs n. 142/2015, non potrà consentire l’iscrizione anagrafica», nonché la Circolare del Ministero dell’interno n. 83744/2018, nella parte in cui prevede che «ai richiedenti asilo – che peraltro non saranno più iscritti nell’anagrafe dei residenti (art. 13) – vengono dedicate le strutture di prima accoglienza (CARA E CAS)».

[2]  Sul punto l’ordinanza richiama il consolidato orientamento della Corte di cassazione per cui «ai lavori preparatori può riconoscersi valore unicamente sussidiario nell’interpretazione di una legge, trovando un limite nel fatto che la volontà da essi emergente non può sovrapporsi alla volontà obiettiva della legge quale risulta dal dato letterale e dalla intenzione del legislatore intesa come volontà oggettiva della norma (voluntas legis), da tenersi distinta dalla volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa» (vds. Cass. n. 3550/1988, nonché Cass. n. 2454/1983 e Cass. n. 3276/1979).
[3] Ciò poiché, evidenzia il Tribunale, posto l’art. 43, comma 2 cc, per cui «la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale», e l’art. 3, comma 1 dPR n. 223/1989, a mente del quale «per persone residenti nel comune s’intendono quelle aventi la propria dimora abituale nel comune», «ne consegue che, se dopo tre mesi un centro di accoglienza deve essere considerato, per legge, dimora abituale, dopo lo stesso lasso di tempo il richiedente asilo accolto nel centro ha diritto all’iscrizione anagrafica in quanto persona residente».
[4] Così A. Pizzorusso, Le fonti a produzione nazionale, in A. Pizzorusso e S. Ferreri, Le fonti del diritto italiano. 1. Le fonti scritte, Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, 1998, pp. 118 ss.
[5] Cfr. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale. I. Il sistema delle fonti del diritto, Torino, 1990, pp. 72 ss.
[6] V. Crisafulli, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., 1937, I, pp. 436 ss.
[7] Per tale sintesi del pensiero crisafulliano vds. N. Lupo, Alla ricerca della motivazione delle leggi: le relazioni ai progetti di legge in parlamento, in Osservatorio sulle fonti 2000, a cura di U. De Siervo, Torino, 2001, pp. 67 ss.
[8] Cfr. P. Morozzo della Rocca, Vecchi e nuovi problemi riguardanti la residenza anagrafica nel diritto dell’immigrazione e dell’asilo . L’autore afferma chiaramente che «la scelta del legislatore – pur discutibile – è tuttavia chiara, sebbene tecnicamente abborracciata e priva dell’affermazione letterale secondo cui i richiedenti asilo non possono iscriversi all’anagrafe. D’altra parte non v’è dubbio che presso i consiglieri del Principe il possesso del permesso di soggiorno e la condizione giuridica di regolarità del soggiorno sono considerati interamente equivalenti, sicché per il legislatore storico il nuovo art. 4 d.lgs 142/2015 costituisce un’eccezione esplicita all’art. 6, comma 7, d.lgs 286/1998. (…) Poiché il legislatore nel caso che ci occupa fa di mestiere il Ministro degli interni, è abbastanza plausibile che la rappresentazione della realtà ora brevemente riportata (pur se inesatta sino ad oggi) costituisca anche una profezia pronunciata da chi ha, almeno in parte, il potere di realizzarla (le commissioni per il riconoscimento dello status di protezione internazionale sono infatti composte, prevalentemente, da funzionari del Ministero dell’interno, certamente preparati ma non del tutto indipendenti rispetto alle sue direttive)».
[9] Cfr. D. Consoli e N. Zorzella, L’iscrizione anagrafica e l’accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo
[10] Cfr. E. Santoro, In direzione ostinata e contraria. Parere sull’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo alla luce del Decreto Salvini, in L’altro diritto, gennaio 2019, che afferma chiaramente che «è evidente che l’abolizione del diritto dei richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe della popolazione residente rappresenti la volontà del Ministero dell’Interno, del Ministro Salvini, proponente del decreto. Ma nel nostro sistema costituzionale questa volontà non ha un peso decisivo, essa deve fare i conti l’art. 101 comma 2 della Costituzione secondo cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Il “soltanto” inserito in questa frase sta a ricordarci che il giudice, per il principio della separazione dei poteri, è soggetto alla legge, non a un qualche potere, e sicuramente non a quello esecutivo. Ciò che deve guidare (anche i funzionari pubblici, per evitare inutili ricorsi e processi sulle loro decisioni) nella lettura dei testi normativi è in primo luogo il contesto costituzionale e il sistema di tutela multilivello dei diritti e poi il quadro sistematico rappresentato dall’ordinamento giuridico. Le interpretazioni fornite dalle circolari ministeriali sono rilevanti solo quando sono compatibili con questo quadro».
[11] Cfr. R. Guastini, Interpretare, costruire, argomentare, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2015, p. 14. Più compiutamente vds. ID. L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, pp. 144 ss.; sul tema dell’interpretazione vds., ex multis, F. Modugno, Interpretazione giuridica, Padova, 2009; E. Betti, Teoria generale della interpretazione, Milano, 1990.
[12] Cass. Civ., Sez. I, 19 febbraio 2019, n. 4890
[13] La distinzione con lo schema norma-potere-effetto si deve a E. Capaccioli, Disciplina del commercio e problemi del processo amministrativo, in ID., Diritto e processo, Padova, 1978, p. 310.
[14] Sia consentito il rinvio a G. Serra, La Corte di cassazione e l’irretroattività del dl 113/2018: tra una decisione annunciata e spunti interpretativi futuri sul permesso di soggiorno per motivi umanitari
[15] Cfr. P. Morozzo della Rocca, Vecchi e nuovi problemi riguardanti la residenza anagrafica nel diritto dell’immigrazione e dell’asilo, cit. che ritiene che «quest’ultima disposizione non andrebbe sminuita – come di certo ad alcuni piacerebbe − ma sottoposta ad un’interpretazione costituzionalmente orientata che, tra l’altro, comprenda nel termine «servizi» la più ampia sfera possibile dei diritti sociali di cui sono debitori e garanti sia gli enti locali che le diverse amministrazioni dello Stato, nella loro disseminazione territoriale».
[16] Cfr. D. Consoli e N. Zorzella, L’iscrizione anagrafica e l’accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo , cit. che sostengono che «questo significa che il/la richiedente asilo ha diritto a tutte le prestazioni erogate sul territorio comunale, evidenziando che la disposizione non parla solo di servizi erogati dalla pubblica amministrazione e pertanto vanno compresi anche quelli di pertinenza di soggetti privati, quali le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari, etc. A titolo esemplificativo, dunque, si possono ricomprendere i servizi afferenti all’istruzione (scuola, nidi d’infanzia) e alla formazione, anche professionale, ai tirocini formativi, alle misure di welfare locale (comunale e regionale), all’iscrizione ai Centri per l’impiego, all’apertura di conti correnti presso le banche o le Poste italiane, etc.».
[17] Cfr. P. Morozzo della Rocca, op. cit.
[18] Vds. in Giur. cost. 1996, 3096. In dottrina vds., ex multis, G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale nel 2003, in Giur. Cost. 2004; G. Serges, L’interpretazione conforme a Costituzione tra tecniche processuali e collaborazione dei giudici, in Scritti in onore di Franco Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011.
[19] Così M. Ruotolo, Quando il giudice deve “fare da sé”, in questa Rivista on line, 22 ottobre 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/quando-il-giudice-deve-fare-da-se-_22-10-2018.php.
[20] Corte Edu, Sentenza 29 ottobre 2009, Si Amer c. Francia. In tema cfr. M.G. Putaturo Donati, Il principio di non discriminazione ai sensi dell’art. 14 Cedu: risvolti sul piano del diritto internazionale e del diritto interno, in www.europeanrights.eu, che ricorda ad esempio come «la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in varie occasioni, avuto modo di sottolineare come la Convenzione non sancisca un obbligo per gli Stati membri di realizzare un sistema di protezione sociale o di assicurare un determinato livello delle prestazioni assistenziali; tuttavia, una volta che tali prestazioni siano state istituite e concesse, la relativa disciplina non può sottrarsi al giudizio di compatibilità con le norme della Convenzione e, in particolare, con l’art. 14 che vieta la previsione di trattamenti discriminatori».
[21] Su tale problematica vds. recentemente G. Bronzini, La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale italiana verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia?
[22] F. Viganò, L’impatto della Cedu e dei suoi protocolli sul sistema penale italiano, in G. Ubertis e F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, pp. 32 ss.
[23] Cfr. Corte di giustizia, Grande Sezione, C-414/16, 17 aprile 2018, Egenberger. Nello stesso senso cfr. Corte di giustizia, C-176/12, 15 gennaio 2014, Association de mèdiation sociale (AMS), in www.osservatoriosullefonti.it, con breve nota di N. Lazzerini, Corte di Giustizia, sent. 15 gennaio 2014, causa C-176/12 Association de Médiation sociale (1/2014), nella quale la Corte ricorda che «a questo proposito, occorre notare come le circostanze del procedimento principale si differenzino da quelle all’origine della (…) sentenza Kücükdeveci, nella misura in cui il principio di non discriminazione in base all’età, in esame in quella causa, sancito dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, è di per sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale».
[24] Cass. Pen., Sez. VI, 15 novembre 2016, n. 54467, in Dir. Pen. Cont., fasc. 4/2017, p. 280 con nota di I. Gittardi, La miccia è accesa: la Corte di Cassazione fa diretta applicazione dei principi della Carta di Nizza in materia di ne bis in idem.
[25] Così C. Salazar, A Lisbon story: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da un tormentato passato… a un incerto presente?, in www.gruppodipisa.it.


L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica


Foto da Flickr

The post L’iscrizione anagrafica e i richiedenti asilo dopo il dl 113/2018 appeared first on Asgi.

La Corte di cassazione e l’irretroattività del dl 113/2018: spunti interpretativi futuri sul permesso di soggiorno per motivi umanitari

La suprema Corte ha affrontato e risolto la questione inerente la disciplina intertemporale del cd. decreto sicurezza affermando l’irretroattività dell’abrogazione della protezione umanitaria: prime riflessioni.

L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica

 


La Corte di cassazione e l’irretroattività del dl 113/2018: tra una decisione annunciata e spunti interpretativi futuri sul permesso di soggiorno per motivi umanitari

 

di Gabriele Serra
giudice, Tribunale civile di Cagliari


La sentenza della Cassazione n. 4890/2019


1. Premessa

Con la sentenza in commento, la Prima Sezione Civile della Corte di cassazione risolve il nodo della disciplina intertemporale del cd. decreto sicurezza dl n. 113/2018, convertito con modificazioni nella legge n. 132/2018, con riferimento alla sorte della protezione umanitaria.

La questione è forse nota, ma è utile ripercorrere brevemente l’evoluzione normativa sul punto, sì da comprendere la posizione espressa dalla recente pronuncia della suprema Corte.

In particolare, il dl 113/2018 è intervenuto in una duplice direzione rispetto all’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari, disciplinato dall’art. 5, 6 comma del d.lgs n. 286/1998 (TU immigrazione), il quale, prima del 5 ottobre 2018, data di entrata in vigore del dl 113/2018, contemplava la possibilità di rilascio del permesso di soggiorno in presenza di «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali».

Il cd. decreto sicurezza ha eliminato tale ampia possibilità di rilascio del permesso di soggiorno, conseguentemente modificando anche l’art. 32, comma 3 d.lgs 25/2008, il quale non prevede più, evidentemente, la possibilità che la Commissione territoriale trasmetta gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno nei casi di cui al citato art. 5, comma 6 TU, residuando la possibilità di tale trasmissione unicamente con riferimento alle ipotesi menzionate ora dall’art. 19, commi 1 e 1.1. del TU, che riguardano sostanzialmente le ipotesi di protezione internazionale cd. maggiori (status di rifugiato e protezione sussidiaria) [1], ostacolate dalle cause di esclusione.

A fianco di tale intervento, ha introdotto tre diversi casi speciali di permesso di soggiorno: «per cure mediche» (art. 19, comma 2, lett. d-bis), «per calamità» (art. 20-bis) e «per atti di particolare valore civile» (art. 42-bis), che si sono andati ad affiancare ai già esistenti casi speciali, non abrogati, «per le vittime di violenza domestica» (art. 18-bis TU) e per «ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo» (art. 22, comma 12-quater, TU).

La pronuncia in commento, e si tornerà in seguito sul punto, evidenzia da subito come tale impostazione legislativa si ponga in termini di rilevante diversità rispetto al modello precedentemente accolto di protezione umanitaria, venendo abbandonata «la clausola generale dei seri motivi di carattere umanitario, da individuare, secondo un catalogo “aperto” determinabile alla luce dell’evoluzione del quadro complessivo dei diritti umani desumibili dal sistema costituzionale interno, da quello convenzionale e dagli obblighi internazionali ai quali il nostro ordinamento è vincolato».

Tale scelta legislativa si pone in distonia con quanto sostenuto dalla migliore dottrina in ordine alla funzione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, la quale ne aveva valorizzato proprio il carattere aperto e flessibile e la capacità futuribile dell’istituto oggi abrogato, idoneo a fronteggiare le mutevoli sfaccettature delle ragioni sottese al recente fenomeno migratorio [2].

Già la stessa Corte di cassazione aveva positivamente considerato il carattere aperto della norma oggi abrogata, sostenendo, rispetto alla protezione umanitaria, come «non siano integralmente tipizzabili le condizioni per il suo riconoscimento, coerentemente con la configurazione ampia del diritto d’asilo contenuto nella norma costituzionale, espressamente riferita all’impedimento nell’esercizio delle libertà democratiche, ovvero ad una formula dai contorni non agevolmente definiti e tutt’ora oggetto di ampio dibattito» [3].

Ciò posto, il problema che viene all’esame della suprema Corte attiene alla disciplina intertemporale da applicare, segnatamente, alle ipotesi di procedimenti in itinere dinanzi alle Commissioni territoriali o ai giudizi in corso a seguito del provvedimento, di accoglimento o diniego, dell’organo amministrativo.

In tal senso infatti, il dl 113 ha dettato unicamente norme transitorie volte a disciplinare l’ipotesi di permesso di soggiorno per motivi umanitari già rilasciato alla data di entrata in vigore del decreto (comma 8) e l’ipotesi di provvedimento della CT che avesse rigettato la domanda di protezione internazionale (status di rifugiato e protezione sussidiaria), ma ritenuto sussistenti i presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari “generico”, non ancora rilasciato (comma 9).

Con riferimento alla prima ipotesi, il dl prevede che il permesso mantenga validità fino alla sua scadenza naturale, laddove, in sede di rinnovo, potrà essere rilasciato unicamente il permesso di soggiorno se la CT dovesse ritenere sussistenti i presupposti di cui ai citati commi 1 e 1.1. dell’art. 19, del TU, determinando così la applicazione della nuova disciplina dettata dall’art. 32, comma 3 d.lgs 25/2008 come novellato.

Quanto alla seconda ipotesi, il comma 9 dispone che venga rilasciato il permesso di soggiorno per motivi umanitari rispetto al quale la CT aveva già ritenuto sussistenti i presupposti, indicando tuttavia la dicitura «casi speciali», della durata di due anni, con applicazione poi, alla scadenza, della disciplina descritta dal citato comma 8.

2. La posizione di Cass. Civ., Sez. I, 19 febbraio 2019, n. 4890

Così brevemente riassunto il thema decidendum, la sentenza in commento ha escluso che il dl 113/2018 possa applicarsi ai procedimenti amministrativi già iniziati davanti alle CT o ai giudizi in corso avverso i provvedimenti di accertamento o diniego del diritto, escludendo, in particolare, che il comma 9 citato possa interpretarsi nel senso di precludere l’accertamento del diritto alla protezione umanitaria se la CT non l’avesse già riconosciuto alla data della entrata in vigore del decreto, in adesione peraltro alla prevalente giurisprudenza di merito e alle conclusioni espresse dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione [4].

Sul punto, in particolare, il ragionamento della Corte muove dal contenuto dell’art. 11 delle Preleggi e dal divieto di irretroattività della legge, evidenziando come l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale (riferendosi in particolare al parametro del cd. fatto compiuto), abbiano chiarito che detto principio trova applicazione non solo con riferimento ai cd. diritti quesiti, e quindi alle situazioni integralmente esaurite al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina, bensì anche alle «situazioni giuridiche soggettive sottoposte ad un procedimento di accertamento ove la nuova disciplina legislativa modifichi il fatto generatore del diritto o le sue conseguenze giuridiche attuali e future».

Se così è allora, la Corte richiama la propria consolidata giurisprudenza al fine di comprendere se il diritto alla protezione umanitaria rientri in tale ipotesi coperta dal principio di irretroattività, concludendo in senso positivo.

A tal proposito infatti, la sentenza in esame ricorda come la situazione giuridica soggettiva in esame abbia «la qualificazione giuridica di diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, di diretta derivazione costituzionale e convenzionale», richiamando il costante orientamento per cui «il diritto d’asilo costituzionale è integralmente compiuto attraverso il nostro sistema pluralistico della protezione internazionale, anche perché non limitato alle protezioni maggiori ma esteso alle ragioni di carattere umanitario, aventi carattere residuale e non predeterminato, secondo il paradigma normativo aperto dell’art. 5, c. 6 d.lgs. n. 286/1998».

Posta tale premessa qualificatoria in punto di diritto sostanziale, la conseguenza, sul piano processuale, non può che essere quella della «natura meramente ricognitiva dell’accertamento da svolgere in sede di verifica delle condizioni previste dalla legge», imponendosi la natura dichiarativa della pronuncia anche alla luce dell’intima connessione tra il diritto alla protezione umanitaria e il diritto d’asilo costituzionale ex art. 10, comma 3 Cost.

E allora, nell’ultimo tassello del ragionamento, la Corte conclude che «il diritto soggettivo, nella specie, è preesistente alla verifica delle condizioni cui la legge lo sottopone» e «il risultato positivo o negativo dell’accertamento, dipende dal quadro allegativo e probatorio posto a base della domanda ma non incide sulla natura giuridica della situazione giuridica soggettiva azionata (…)».

Tali conclusioni cui giunge la Corte, confermano le considerazioni già avanzate dalla più attenta dottrina sul punto, la quale, all’argomentazione ampiamente espressa dalla Cassazione, aveva altresì affiancato quella ulteriore dell’interpretazione “adeguatrice” a Costituzione della novella e, segnatamente, di quella transitoria di cui al citato comma 9, in particolare sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost. in punto di proporzionalità dell’intervento legislativo, di ragionevolezza e anche di uguaglianza in senso stretto, posto che si «determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento fra soggetti ugualmente titolari del diritto, disparità che potrebbe dipendere dai ritardi o dalle errate valutazioni della Commissione» [5], che peraltro, in qualche forma, vengono altresì riprese dalla sentenza in esame.

In questa direzione, appare a chi scrive di particolare interesse il richiamo alla giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione Europea, che conferma il dialogo tra Corti, nazionali e sovranazionali, che nella materia della protezione internazionale riveste certamente un ruolo centrale [6].

In particolare la Cassazione, nel ricordare come la disciplina di cui all’art. 11 delle Preleggi non goda di copertura costituzionale, richiama tuttavia l’orientamento consolidato della Corte costituzionale in tema di irretroattività della legge e, in particolare, la necessità di salvaguardare gli «interessi costituzionalmente protetti», che possono ben costituire un limite alla retroattività della legge anche per lo stesso legislatore [7].

Le argomentazioni espresse sulla natura sostanziale del diritto alla protezione umanitaria allora non possono che condurre la Corte alla sussunzione di tale diritto nell’alveo di quelli costituzionalmente protetti, così ulteriormente avvalorando la conclusione di irretroattività.

Quanto alla giurisprudenza della Corte di giustizia, la Cassazione richiama la giurisprudenza europea che, anche recentemente, ha affermato la natura meramente ricognitiva dell’accertamento del diritto alla protezione internazionale, evidenziando in particolare come «pertanto l’accertamento interferisce con il diritto dell’Unione Europea, potendo costituire parte integrante del sistema legislativo della protezione internazionale degli Stati membri. Ne consegue che i principi affermati dalla Corte di Giustizia (…) costituiscono un canone ermeneutico rilevante anche ai fini della corretta applicazione delle norme che si succedono all’interno dei singoli ordinamenti».

Tale ultima argomentazione assume particolare rilievo nell’ambito delle fonti a cui il giudice nazionale e, in particolare, quello del merito della protezione internazionale deve guardare nel dirimere le questioni interpretative che di volta in volta possano sorgere.

La Corte aveva già ricordato, proprio in tema di protezione umanitaria, come «pur non avendo un esplicito fondamento nell’obbligo di adeguamento a norme internazionali o europee, tale forma di protezione è tuttavia richiamata dalla Direttiva comunitaria nr. 115/2008, che all’art. 6, par. 4, prevede che gli Stati possano rilasciare in qualsiasi momento, “per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura”, un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di una Paese terzo il cui soggiorno è irregolare» [8].

Nella stessa direzione, già in precedenza la Corte, con riferimento alla problematica interpretativa della necessità o meno di audizione in sede giurisdizionale del richiedente asilo in mancanza di videoregistrazione del colloquio in sede amministrativa, aveva chiarito come il limite di riferimento era comunque da rinvenirsi nei principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia, 26 luglio 2017, Moussa Sacko, con particolare riferimento alla non necessità dell’audizione solo in caso di manifesta infondatezza della domanda [9].

3. Spunti interpretativi di rilevanza esterna: il diniego del questore di rilascio del permesso di soggiorno per mancata esibizione del passaporto in seguito al riconoscimento del diritto

Chiarita perciò la portata della decisione con riferimento al problema della retroattività del dl 113/2018, ad avviso di chi scrive la sentenza in commento fornisce, in primo luogo, interessanti elementi di utilità per affrontare una ulteriore problematica che si affaccia all’esame della giurisprudenza di merito.

In particolare, ci si riferisce al rifiuto del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari da parte del questore, pur se già riconosciuto il relativo diritto da parte della CT o del giudice, in ragione della mancata produzione del passaporto da parte del richiedente.

Tale rifiuto sarebbe giustificato dalla circostanza per cui la protezione umanitaria costituirebbe una forma di protezione prevista esclusivamente dal legislatore nazionale, come tale non riconducibile o equiparabile alla posizione del richiedente asilo, per il quale è normativamente previsto l’esonero dall’esibizione del passaporto o documento equipollente ai fini del rilascio del permesso di soggiorno.

A fronte di tali provvedimenti, la prima giurisprudenza di merito si è orientata nel senso di ritenere che, una volta accertato il diritto in sede amministrativa o giurisdizionale, in capo al questore non residui alcun margine di apprezzamento circa la posizione giuridica soggettiva del richiedente [10].

Di particolare interesse ai nostri fini è l’argomentazione espressa da tale orientamento per cui la protezione umanitaria ha la funzione «di clausola di salvaguardia del sistema giuridico sulla condizione della persona straniera, imponendo di derogare alla rigida disciplina dettata in materia di ingresso e permanenza sul territorio e consentire il rilascio di un permesso di soggiorno quando questo sia necessario al rispetto dei diritti fondamentali della persona e all’adempimento degli obblighi gravanti sullo Stato (Corte Cost. sentenza n.202/2013)».

Rispetto a tale problematica, sembra potersi riconoscere come la pronuncia in commento avvalori la soluzione già espressa dalla citata giurisprudenza di merito, poiché essa si impone, a fortiori, in ragione della ampiamente argomentata natura giuridica del diritto alla protezione umanitaria, in ciò non discostandosi in nulla dalle forme di protezione internazionali cd. maggiori. Ma, ancor di più, la riconduzione di esso nell’alveo dei diritti umani e degli interessi costituzionalmente protetti, ribadita a chiare lettere dalla Cassazione, non può che condurre alla conclusione per cui non può imporsi in capo al richiedente asilo un onere ulteriore rispetto a quello previsto per i soggetti beneficiari di permesso di soggiorno per rifugiato o titolare di protezione sussidiaria.

Non si condivide infatti la presunta distinzione, sotto questo profilo, tra le diverse forme di protezione internazionale, le quali tutte, come visto, si inscrivono nel medesimo panorama normativo e, in ultimo, di attuazione del disposto dell’art. 10, comma 3 Cost. e del diritto d’asilo ivi contemplato a favore dello «straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».

Ciò appare ancor di più confermato dall’ulteriore principio di diritto sancito dalla sentenza in commento, in forza del quale, riconosciuta la non retroattività del dl 113/2018 e la conseguente operatività del previgente art. 5, comma 6 TU, chiarisce che, nel caso in cui il procedimento amministrativo o giurisdizionale pendente alla data di entrata in vigore del decreto si concluda positivamente, il questore debba rilasciare un permesso di soggiorno per motivi umanitari con la dicitura «casi speciali» e la conseguente applicazione del comma 9 citato.

Nell’affermare tale principio in particolare, la Corte ricorda che «necessitando il permesso di soggiorno di una conseguente e necessaria fase attuativa successiva al provvedimento della commissione territoriale o emesso in sede giudiziale, la stessa non può che esplicarsi sulla base della nuova normativa vigente».

La Corte perciò definisce la fase del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari a seguito del riconoscimento dei presupposti come meramente attuativa, ove non possono essere adottati provvedimenti che incidano sul diritto al rilascio del permesso di soggiorno, in quanto lo stesso è stato già riconosciuto.

Proprio il carattere di tale attività come strumentale e quasi materiale rispetto al diritto sostanziale ha comportato che la pronuncia in commento negasse portata retroattiva alla nuova disciplina. In altre parole, nella fase successiva al riconoscimento del diritto, non possono venire sollevate dall’organo amministrativo eccezioni di fatto che, antecedenti o successive, potrebbero incidere sull’attuazione del diritto già riconosciuto, che, con il materiale rilascio del permesso, ha così la piena possibilità di esplicazione.

Peraltro, a ragionar diversamente, si consentirebbe di interferire con una decisione (amministrativa o giurisdizionale) che, sul punto, ha già statuito e che per essere contestata necessita dell’impugnazione nelle forme di legge.

Nondimeno, appare a chi scrive muovere nella medesima direzione l’ulteriore argomentazione esplicitata dalla Cassazione nella pronuncia qui commentata, che riconosce come non deponga in senso contrario alla soluzione dell’irretroattività del dl quella per cui l’art. 8, comma 3 d.lgs. 25/2008 impone la cd. “valutazione dell’attualità” dei fatti dedotti con la domanda, poiché essa «attiene alla disciplina degli oneri di allegazione della parte e dell’obbligo di cooperazione istruttoria del giudice e, quindi, alle modalità di conformazione dell’istruttoria, ma non concerne la configurazione giuridica del diritto azionato» [11].

Tale considerazione chiarisce come l’istruttoria entro la quale assume rilievo la valutazione dell’attualità dei fatti è quella amministrativa nanti le CT o quella giurisdizionale, organi deputati a valutare la sussistenza o meno del diritto, non certo l’attività del questore successiva al riconoscimento di detto diritto, il quale è tenuto unicamente a dare attuazione al provvedimento amministrativo o giurisdizionale rilasciando il permesso di soggiorno per motivi umanitari e non potendo addurre motivazioni, di qualsivoglia sorta, che impediscano l’esercizio del diritto riconosciuto.

Per dirla con parole diverse, la valutazione in ordine al riconoscimento del richiedente la protezione internazionale, non rilevando la forma di essa che venga riconosciuta, sufficiente ai fini dell’accertamento del diritto, viene svolta dalla CT o dal giudice, non potendo poi essere rimessa in discussione dal questore nella fase esecutiva del provvedimento che il diritto ha riconosciuto.

4. Conclusioni in punto di legittimità costituzionale, ovvero quel che resta della protezione umanitaria

La Corte di cassazione, con la sentenza esaminata, ci consegna così l’arco temporale di vigenza dell’istituto della protezione umanitaria per come l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale l’aveva ricostruito.

Tuttavia, pur senza avere la capacità di dilungarsi sul punto, è noto come gli interpreti si stiano interrogando sulla compatibilità costituzionale dell’intervento novellatore e, in tema, sembra a chi scrive che la suprema Corte non abbia fugato i dubbi di costituzionalità.

In tal senso infatti, la Corte ha rimarcato, come detto, l’ascrizione del diritto alla protezione umanitaria nell’alveo dei diritti umani, di matrice costituzionale, evidenziandone, ancora una volta, l’intimo legame che intercorre con l’art. 10, comma 3 Cost.

Sul punto, la più recente dottrina ha ipotizzato due possibili direzioni di analisi del problema: in primo luogo, ritenere la compatibilità costituzionale del sistema, sulla base della riconosciuta immediata precettività dell’art. 10, comma 3 Cost. e, quindi, sostanzialmente ritenere ancora possibile la rilevanza di circostanze fattuali ulteriori e diverse da quelle considerate dalle norme in tema di rifugiati, protezione sussidiaria e permessi umanitari “speciali”, che sarebbero idonee a riconoscere il diritto d’asilo con applicazione diretta della norma costituzionale.

La seconda direzione, muove dalla distinzione che può evincersi dalla lettura del previgente art. 5, comma 6 TU, che separava con la particella disgiuntiva «o» i «seri motivi, in particolare di carattere umanitario» da quelli «risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». In tal senso perciò, tale dottrina ritiene che risulterebbe per tabulas l’incostituzionalità del secondo inciso, per violazione degli artt. 2 e 10 Cost., nonché 117 Cost. rispetto alla norma interposta dell’art. 8 Cedu, laddove maggiori perplessità sorgerebbero con riferimento al primo inciso, che rivelerebbe casi di permesso umanitario non direttamente attuativi del diritto d’asilo costituzionale [12].

Volendo seguire tale impostazione della questione, quanto all’immediata precettività dell’art. 10, comma 3 Cost., si deve rilevare come la giurisprudenza consolidata della stessa Corte di cassazione abbia affermato come «questa Corte, che ritiene di superare la giurisprudenza di cui a Cass. 18940 del 2006, per la quale il diritto di cui all’art. 10 Cost., comma 3 degraderebbe a mera posizione processuale o strumentale (propria di chi ha diritto all’esame della sua domanda alla stregua delle vigenti norme sulla protezione), ha già affermato, ed il Collegio qui ribadisce, che il diritto di asilo è oggi (e quindi dopo la menzionata pronunzia) interamente attuato e regolato, attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti di protezione, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 (adottato in attuazione della direttiva 2004/83/CE) e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 sì che non si scorge alcun margine di residuale diretta applicazione della norma costituzionale» [13].

Ne consegue che la stessa Corte di cassazione, alla luce di tali argomentazioni, parrebbe dover essere costretta a riesaminare il proprio orientamento alla luce dell’abrogazione del permesso umanitario generico, chiarendo se, per tale via, si scorga nuovamente un margine di residuale diretta applicazione dell’art. 10, comma 3 Cost. o meno, anche alla luce della permanenza comunque, nel nostro ordinamento, dei casi di permesso di soggiorno per motivi umanitari “speciali”.

Sul punto, ci appare preferibile considerare come, pur se dotato di immediata precettività, non possa considerarsi l’art. 10, comma 3 Cost. come direttamente applicabile nell’attuale sistema normativo, poiché quest’ultimo non appare di per sé carente, contemplando un ampio spettro di strumenti atti a garantire il diritto d’asilo (status di rifugiato, protezione sussidiaria e casi speciali di permessi di soggiorno per motivi umanitari).

Ciò che appare dover essere invece valutato è se la tecnica legislativa della determinazione dei casi di protezione umanitaria secondo una descrizione tipica di essi sia realmente compatibile con una norma costituzionale che garantisce la tutela di quelle situazioni giuridiche soggettive che siano riconducibili al libero esercizio delle attività democratiche. In altre parole, non sembra a chi scrive che si debba parlare di mancata attuazione dell’art. 10, comma 3 Cost., il che aprirebbe la strada ad una sua diretta applicazione, bensì di una sua possibile violazione, poiché è necessario che lo strumento attuativo sul piano della legislazione ordinaria, proprio per le caratteristiche del diritto, non sia caratterizzato da fattispecie chiuse.

D’altronde, posto che l’art. 10, comma 3 Cost. richiama il necessario rispetto delle condizioni stabilite dalla legge, sarebbe ben difficile comprendere quale provvedimento l’autorità amministrativa dovrebbe rilasciare nell’ipotesi di riconoscimento di un diritto all’asilo direttamente discendente ex art. 10 Cost, nell’ambito dei diversi riconosciuti dalla legislazione ordinaria. Ciò a conferma della circostanza per cui l’immediata applicabilità della norma dovrebbe attenere all’ipotesi di vuoto legislativo, non già di disciplina esistente, della cui costituzionalità è tuttavia lecito dubitare in ragione della tecnica utilizzata al fine di dare attuazione al diritto in esame.

E allora, in tal senso e venendo alla seconda opzione interpretativa sopra prospettata, non sembra assumere rilevanza la distinzione tra il permesso per motivi di carattere umanitario e quello risultante da obblighi costituzionali o internazionali, poiché entrambe le ipotesi sono essenziali a che la disciplina legislativa ordinaria sia idonea ad attuare il diritto d’asilo costituzionale, come emerso nella giurisprudenza consolidata.

Perciò, può prospettarsi come il nodo gordiano realmente da sciogliersi attenga alla necessità o meno che, per potersi parlare di diritto alla protezione umanitaria, la disciplina legislativa utilizzi la tecnica della clausola generale aperta, da riempirsi con le più disparate vicende della vita concreta da parte degli operatori, amministrativi o giurisdizionali, che si trovino a conoscerla, o sia sufficiente l’elencazione di ipotesi oggi proposta dal legislatore [14].

Ed è in questo senso che la stessa sentenza qui commentata sembra fornire una indicazione in senso negativo rispetto a quest’ultima ipotesi, laddove richiama il carattere non predeterminato delle ragioni che possono giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Come già anticipato in apertura, la dottrina si era già espressa in termini favorevoli ad un inquadramento aperto delle fattispecie concrete che possano giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, evidenziando che la definizione di un pur approssimativo catalogo di situazioni rilevanti rischierebbe di determinare la negazione di diritti di rilievo costituzionale, ai sensi dell’art. 2 Cost. [15].

Tale impostazione appare in realtà condivisibile e financo idonea, perciò, a far sorgere dubbi in ordine alla compatibilità costituzionale del modello del permesso umanitario per «fattispecie chiuse» adottato dal dl 113, con riferimento agli artt. 2, 3 e 10, comma 3 Cost.

In conclusione, non pare fuor di luogo richiamare i mai troppo rimpianti insegnamenti di Stefano Rodotà, il quale nel porsi la domanda «troppi stranieri ci accompagnano. Come affrontare il compito di amarli?», si rispondeva «l’eguaglianza ha nell’accettazione piena delle diversità un elemento fondativo, e proprio nel suo congiungersi con la solidarietà definisce la condizione dell’inclusione» [16].

 

 

[1] Art. 19 TU immigrazione: «1. In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. 1.1. Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani».
[2] Cfr. M. Acierno, La protezione umanitaria nel sistema dei diritti umani, in Questione Giustizia trimestrale, fasc. 2/2017, ove si sottolinea altresì come «le libertà democratiche che già ad una lettura originalista del testo costituzionale si mani­festano come un catalogo non predeterminato, sono esposte ad un grado di vulnerabilità ben superiore a quello relativo al periodo nel quale la nostra Costituzione è stata composta, all’interno della vastità del fenomeno migratorio più recente».
[3] Cfr. Cass. Civ., Sez. I, 23 febbraio 2018, n. 4455, 14 marzo 2018, con nota di C. Favilli, La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018, 14 marzo 2018.
[4] Le conclusioni del Procuratore generale  e la giurisprudenza di merito
[5] Cfr. C. Padula, Quale sorte per il permesso di soggiorno umanitario dopo il dl 113/2018?
[6] Sul tema in generale vds. A. Ruggeri, Dialogo tra le Corti, tutela dei diritti fondamentali ed evoluzione del linguaggio costituzionale
[7] Sul tema della irretroattività della legge vds. F. Satta, Irretroattività degli atti normativi, in Enc. Giur., XVII, Roma, 1989, 1; R. Caponi, La nozione di retroattività della legge, in Giur. Cost., 1990, 1332 ss.; con specifico riferimento al tema dei limiti costituzionali vds. F. Pagano, Legittimo affidamento e attività legislativa nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e delle Corti sovranazionali, in Dir. Pubbl., 2014, p. 585. Con riferimento alla giurisprudenza costituzionale cfr. ad es. Corte Cost. 1 aprile 2014, n. 64, in www.cortecostituzionale.it, che ha avuto modo di ribadire che «nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione). Unica condizione essenziale è che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» e Corte Cost., 11 giugno 2010, n. 209, in www.cortecostituzionale.it, che individua i limiti «attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario».
[8] Cfr. Cass. Civ., n. 4455/2018 cit.
[9] Sia consentito il rinvio a Cass. Civ., Sez. I, 5 luglio 2018, n. 17717, con nota di G. Serra, Mancanza di videoregistrazione del colloquio dinanzi alla Commissione territoriale e obbligatorietà dell’udienza di comparizione delle parti nel giudizio di protezione internazionale: la posizione della Corte di Cassazione, ove la Corte spiega che «gli articoli 12, 14, 31 e 46 della direttiva 2013/32/Ue, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vanno interpretati nel senso che non osta a che il giudice nazionale, investito di un ricorso avverso la decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale manifestamente infondata, respinga detto ricorso senza procedere all’audizione del richiedente qualora le circostanze di fatto non lascino alcun dubbio sulla fondatezza di tale decisione, a condizione che, da una parte, in occasione della procedura di primo grado sia stata data facoltà al richiedente di sostenere un colloquio personale sulla sua domanda di protezione internazionale, conformemente all’articolo 14 di detta direttiva, e che il verbale o la trascrizione di tale colloquio, qualora quest’ultimo sia avvenuto, sia stato reso disponibile unitamente al fascicolo, in conformità dell’articolo 17, paragrafo 2, della direttiva medesima, e, dall’altra parte, che il giudice adito con il ricorso possa disporre tale audizione ove lo ritenga necessario ai fini dell’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto contemplato all’articolo 46, paragrafo 3, di tale direttiva».
[10] Cfr. Trib. Cagliari, Sez. I, 3 dicembre 2018, in causa RG 4861/2018, inedita, che afferma che «nel caso in cui la Commissione Territoriale accerti la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario trasmette gli atti alla Questura competente ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, al quale non residua alcun margine di apprezzamento in ordine alla posizione dello straniero trattandosi di un compito di mera attuazione dei deliberati assunti dalla Commissione stessa (Cass. S.U., ordinanza 21 aprile 2009, n. 11535; Cass. n. 26481/2011; Cass. n. 16221/2012)», e che quindi «all’esito del procedimento, se viene riconosciuta la protezione umanitaria deve essere rilasciato il permesso per tale motivo. Nessuna norma richiede che in questo caso debba essere esibito il passaporto, e d’altra parte questa fase costituisce soltanto un segmento del complessivo procedimento accertativo cominciato per effetto della richiesta di protezione internazionale, nel corso del quale si verificano plurime identificazioni del richiedente, da parte della stessa Questura e da parte della Commissione territoriale». Cfr. altresì Trib. Palermo, Sez. I, in causa RG 15122/2017, inedita.
[11] In ordine all’obbligo di cooperazione istruttoria del giudice vds., ad es., Cass. Civ., Sez. unite, 17 novembre 2008, n. 27310, in Giust. Civ., 2009, 2, p. 324: «Nel giudizio per il riconoscimento dello status di rifugiato le norme interne in materia di onere della prova dovevano essere interpretate, anche prima dell’entrata in vigore dei d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251 e 28 gennaio 2008 n. 25 di recepimento delle direttive comunitarie, rispettivamente, n. 2004/83/Ce e n. 2005/85/Ce, alla stregua delle dette direttive, chiaramente ispirate al superamento del comune principio dell’onere della prova; deve, pertanto, essere cassata con rinvio la sentenza del giudice del merito che, in applicazione rigorosa dell’art. 2697 cc, omettendo ogni indagine ufficiosa e dichiarando inammissibile, per difetto di articolazione in capitoli, la prova testimoniale dedotta dall’interessato, abbia violato il dovere di cooperazione nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento dello status richiesto». In dottrina vds. M. Flamini, Il ruolo del giudice di fronte alle peculiarità del giudizio di protezione internazionale, in Questione Giustizia trimestrale, fasc. 2/2017; M. Acierno, M. Flamini, Il dovere di cooperazione del giudice, nell’acquisizione e nella valutazione della prova, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, fasc. 1/2017, pp. 11 ss e p. 17.

[12] Cfr. C. Padula, Quale sorte per il permesso di soggiorno umanitario dopo il dl 113/2018?, cit.
[13] Cfr. Cass. Civ., Sez VI, 26 giugno 2012, n. 10686, in Giust. civ. Mass. 2012, 6, 848.
[14] In ordine alla funzione delle clausole generali e all’inidoneità del diritto positivo a disciplinare ogni aspetto della vita vds., di recente, N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in Questione Giustizia trimestrale, fasc. 4/2016, ove si legge «nel quadro di una realtà in continua velocissima evoluzione appare sempre difficile immaginare in funzione di quale criterio sia possibile ricostruire in astratto, e quindi prescindendo dalle peculiarità, sempre variabili, del singolo caso, i presupposti in base ai quali sia stato individuato un interesse al momento del conferimento»; più compiutamente Vds. altresì compiutamente ID., Il diritto civile tra legge e giudizio, 2017.
[15] Cfr. N. Zorzella, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, fasc. 1/2018, p. 15. L’A. sostiene altresì che «nel mondo giuridico questa attenzione, imprescindibilmente laica, può tradursi in un catalogo aperto di situazioni ritenute meritevoli di considerazione per motivi ritenuti socialmente compassionevoli che, più correttamente, vanno riferiti all’inviolabilità dei diritti umani – da chiunque violati – e all’obbligo di solidarietà espressi dall’art. 2 Cost., come avviene, ad esempio, nell’ambito della tutela umanitaria inserita nel sistema della protezione internazionale, laddove le violenze subite in Libia solo in quanto migranti sono state ritenute presupposto per il riconoscimento della protezione ex art. 5, co. 6 TU 286/98».
[16] Cfr. S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, 2014, pp. 86-88.


 


 

The post La Corte di cassazione e l’irretroattività del dl 113/2018: spunti interpretativi futuri sul permesso di soggiorno per motivi umanitari appeared first on Asgi.

La richiesta di autorizzazione a procedere nel caso Diciotti

Chi fissa e quali sono i limiti all’azione politica del Governo in uno Stato democratico?

di Luca Masera
professore associato di diritto penale, Università degli Studi di Brescia


La relazione del Tribunale di Catania (Sez. reati ministeriali)


Domanda di autorizzazione a procedere per il delitto di sequestro di persona aggravato a carico del Ministro dell’interno in carica, nonché leader di uno dei due partiti che governano il Paese con ampio sostegno popolare. Il provvedimento che qui si annota non può lasciare indifferenti: sta succedendo qualcosa di eccezionale quando un Tribunale della Repubblica chiede che il Ministro dell’interno venga processato per un reato che prevede la pena della reclusione da tre a quindici anni.

E la situazione è ancora più anomala, se si considera che il fatto per cui la magistratura chiede ad una Camera di procedere (in questo caso il Senato, essendo il Ministro dell’interno anche senatore della Repubblica) non è un episodio corruttivo o comunque legato a fatti che l’indagato nega o sono discutibili. In questo caso il reato che si contesta risulta integrato da una condotta, la chiusura dei porti ai migranti provenienti dalla Libia, che il Ministro dell’interno continua tuttora a rivendicare come parte fondamentale del proprio programma politico e di governo. Il contrasto all’ingresso di stranieri irregolari in Italia viene attuato con la strategia dei “porti chiusi”, che riscuote, stando ai sondaggi, un larghissimo consenso nel corpo elettorale.

Con questo provvedimento, i magistrati di Catania affermano che il Ministro, diretto responsabile della concreta attuazione di tale strategia politica, deve rispondere del gravissimo reato di sequestro di persona a carico di 177 migranti, e chiedono al Senato, secondo la procedura prevista per i reati ministeriali dalla legge cost. n. 1/1989, l’autorizzazione a procedere a suo carico. Il Tribunale di Catania sta esorbitando dalle proprie competenze, come afferma il Ministro parlando di «toghe di sinistra che invadono il campo della politica»? Avrebbe dovuto il Tribunale accogliere la richiesta della procura etnea di archiviare il procedimento, in quanto il principio di separazione dei poteri vieterebbe alla magistratura penale di valutare la legittimità di atti politici esplicitamente rivendicati dalle più alte autorità di governo? A noi pare che le 50 pagine che mettiamo qui a disposizione del lettore forniscano una risposta convincente del contrario, e cioè che la decisione presa dai giudici di Catania è corretta, e per quanto dirompente è l’unica risposta appropriata rispetto alla gravità dei fatti avvenuti, sotto gli occhi di tutti, la scorsa estate a Catania.

Di seguito forniremo al lettore niente più che una “guida alla lettura” dell’articolato percorso argomentativo seguito dai giudici siciliani, per svolgere poi alcune riflessioni riguardo ai prossimi esiti cui può dare luogo la vicenda.

Le motivazioni della richiesta di autorizzazione a procedere

Gli eventi sono noti, e possono essere qui riassunti in termini molto sintetici. Il 14 agosto 2018 veniva segnalata un’imbarcazione con a bordo diverse decine di soggetti di varie nazionalità (in prevalenza eritrea e somala), proveniente dalla Libia, che versava in una situazione molto precaria. Nei giorni successivi all’avvistamento, insorgeva una controversia tra le autorità italiane e maltesi circa la responsabilità per il soccorso dei naufraghi, sino a che il precipitare della situazione induceva le motovedette della Guardia costiera italiana ad intervenire, trasferendo poi i 177 stranieri soccorsi sulla motonave Diciotti. Dopo tre giorni di stazionamento nei pressi di Lampedusa, dovuto al fatto che tra le autorità italiane e maltesi perdurava il contrasto circa l’individuazione del Paese responsabile dell’indicazione del Pos (place of safety), il 20 agosto la Diciotti riceveva l’autorizzazione ad entrare nel porto di Catania, ma non a sbarcare i migranti della nave. Il Ministro degli interni rifiutava, infatti, il rilascio del Pos (e quindi l’autorizzazione allo sbarco), sino a che non si fosse sbloccata la trattativa a livello europeo su quali Paesi fossero disponibili ad accogliere i migranti presenti sulla nave. In considerazione delle difficili condizioni in cui i migranti versavano, costretti a vivere da diversi giorni su un’imbarcazione inadatta ad accogliere un numero così elevato di ospiti, il 22 agosto, a seguito di esplicita richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minori di Catania, veniva autorizzato lo sbarco dei minori non accompagnati, mentre solo il 25 agosto venivano sbarcati tutti gli altri.

Il Tribunale, che ripercorre giorno per giorno le vicende appena descritte, distingue due fasi temporali. La prima, dal 15/16 agosto, quando i migranti vengono tratti a bordo dalla Diciotti, sino all’ingresso nel porto di Catania del 20 agosto; e la seconda, da tale data sino al 25 agosto, durante la quale i migranti vengono trattenuti sulla Diciotti senza poter sbarcare.

Per quanto riguarda la prima fase, il Tribunale etneo esclude la sussistenza di condotte costituenti reato da parte del Ministro, richiamandosi integralmente alle motivazioni sul punto del Tribunale dei ministri di Palermo, che peraltro non vengono neppure curiosamente riassunte, e che non sono note a chi scrive. Ci limitiamo qui a ricordare che la Procura di Agrigento aveva aperto il procedimento a carico del Ministro, trasferendo gli atti al competente Tribunale dei ministri di Palermo, sul presupposto che fosse penalmente rilevante già lo stazionamento forzato nelle acque di Lampedusa, mentre proprio una diversa valutazione di questa prima fase della vicenda aveva indotto i giudici palermitani a trasferire gli atti ai colleghi catanesi, reputando che solo in relazione al trattenimento nel porto etneo si potesse configurare un fatto penalmente illecito.

Riguardo allora ai cinque giorni (dal 20 al 25 agosto) in cui gli stranieri sono stati bloccati sulla Diciotti nel porto di Catania, il Tribunale ritiene che sussistano gli estremi della fattispecie di cui all’art. 605, comma 3 (sequestro di persona aggravato dall’abuso della qualità di pubblico ufficiale e della minore età di alcune delle vittime).

Il quadro probatorio su cui il Tribunale fonda le proprie conclusioni è ampio, visto in particolare che nella fase istruttoria condotta dal medesimo Tribunale è stata assunta la testimonianza di tutti i membri apicali della catena decisionale che ha condotto alla chiusura per 5 giorni del porto di Catania ai migranti della Diciotti: il Questore, il Prefetto e il Comandante della Capitaneria di porto di Catania, e il capo di gabinetto del Ministero dell’interno e il suo vice.

Prima di analizzare i singoli elementi costitutivi del reato, la sentenza si impegna in una ricostruzione del «quadro normativo di riferimento del procedimento di sbarco e delle competenze amministrative» ad esso relative, con l’obiettivo di «chiarire quali siano i doveri degli Stati, le relative competenze e i limiti di discrezionalità esistenti nella gestione del fenomeno del soccorso in mare» (p. 6).

La premessa da cui prende le mosse il Tribunale nella sua analisi del quadro sovranazionale è che «l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzione internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 Cost., non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica, assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna» (p. 7).

Il provvedimento ricostruisce allora la normativa di riferimento, con particolare riferimento alla Convenzione Solas del 1974 e alla Convenzione Sar del 1979, così come emendate nel 2006. Un’analisi del concreto piano operativo predisposto dalle autorità italiane, in conformità agli obblighi internazionali in materia di soccorso in mare, mostra secondo il Tribunale come «ove l’attività di soccorso in mare sia stata effettuata materialmente da unità navali della Guardia costiere italiana, la richiesta di assegnazione del POS debba essere presentata da MRCC Roma (Maritime Rescue Coordination Center) al Centro nazionale di coordinamento (NCC), che poi provvederà all’inoltro della stessa al competente Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione del Ministero dell’interno, competente all’indicazione del POS ove operare lo sbarco» (p. 12).

Molto importante è poi il passaggio in cui il Tribunale ricostruisce i caratteri essenziali del procedimento delineato per i reati ministeriali dalla legge cost. n. 1/1989, ove è necessario tenere distinta la «valutazione di tipo tecnico-giuridico» demandata al Tribunale, che deve decidere della sussistenza del reato secondo i canoni della legislazione penale comune, e la valutazione politica che l’art. 9 della legge affida al Parlamento quando prevede che l’assemblea della Camera di appartenenza «può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». Proprio tenendo a mente la peculiare scansione procedimentale prevista per i reati ministeriali, il Tribunale esclude di dover valutare i connotati politici della decisione di impedire lo sbarco dei migranti, richiamando puntualmente in senso conforme una decisione delle Sezioni unite della Cassazione, per cui «il carattere politico del reato, il movente che ha determinato il soggetto a delinquere, nonché il rapporto che può sussistere tra il reato commesso e l’interesse pubblico della funzione esercitata, proprio in conseguenza di quanto disposto dalla l. cost. n. 1/1989, sono criteri idonei a giustificare la concessione o negazione dell’autorizzazione a procedere da parte della Camera o del Senato, ma non sono certamente qualificabili come condizioni per la configurabilità dei reati ministeriali» (Cass., Sez. unite, n. 14/1994, citata a p. 14).

Venendo ad analizzare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato, il Tribunale prende ovviamente le mosse dall’elemento oggettivo, e dedica particolare attenzione ad individuare il momento a partire dal quale gli uffici competenti del Ministero dell’interno avevano il dovere giuridico di assegnare un Pos ai migranti, e dunque la loro permanenza sulla Diciotti deve ritenersi illegittima. I giudici catanesi ripercorrono le concitate vicende dei giorni successivi all’avvistamento dell’imbarcazione e la controversia insorta tra autorità italiane e maltesi su chi fosse tenuto secondo la normativa internazionale a prestare soccorso (in un passaggio il Tribunale arriva a definire «moralmente censurabile» il comportamento della autorità maltesi). Una volta tuttavia constatata l’indisponibilità di Malta ad indicare un Pos per i migranti, ed una volta autorizzata la Diciotti a dirigersi verso le coste siciliane, le autorità italiane avevano assunto di fatto e di diritto la gestione dei soccorsi, e avevano secondo la normativa internazionale il dovere di indicare nel più breve tempo possibile un Pos ove i naufraghi potessero sbarcare. Per queste ragioni, conclude sul punto il Tribunale, «l’omessa indicazione del POS da parte del Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione, dietro precise direttive del MdI, ha determinato, dopo che alle ore 23.49 del 20 agosto l’unità navale Diciotti raggiungeva l’ormeggio presso il porto di Catania (così creando le condizioni oggettive per operare lo sbarco), una situazione di costrizione a bordo delle persone soccorse fino alle prime ore del 26 agosto (quando veniva avviata la procedura di sbarco a seguito dell’indicazione del POS nella tarda serata del 25 agosto dal competente Dipartimento, dietro nulla osta del Ministro), con conseguente apprezzabile limitazione della libertà di movimento dei migranti, integrante l’elemento oggettivo del reato contestato. Non vi è dubbio, invero, che la protratta presenza dei migranti per cinque giorni a bordo di una nave ormeggiata sotto il sole in piena estate dopo avere già affrontato un estenuante viaggio durato diversi giorni, la necessità di dormire sul ponte della nave, le condizioni di salute precaria di numerosi migranti, la presenza a bordo di donne e bambini, costituiscono circostanze che manifestano le condizioni di assoluto disagio psico-fisico sofferte dai migranti a causa di una situazione di “costrizione” a bordo non voluta e subita, sì da potersi qualificare come “apprezzabile”, e dunque, penalmente rilevante, l’arco temporale di privazione della libertà personale sofferto» (p. 24).

Quanto all’elemento soggettivo del reato, il Tribunale ricorda anzitutto come l’art. 605 cp delinei una fattispecie a dolo generico, per la cui integrazione è sufficiente la consapevolezza di infliggere alla persona offesa una illegittima privazione della libertà personale, mentre risultano irrilevanti gli scopi ulteriori perseguiti dall’agente. Nel medesimo paragrafo del provvedimento in materia di elemento soggettivo il Tribunale affronta poi tre questioni attinenti a ben vedere non già all’elemento psicologico del reato, bensì alle diverse questioni (di natura in realtà oggettiva) della riferibilità del divieto di sbarco ad una condotta personale del Ministro, e della presenza di cause giustificazione: la «questione della riconducibilità dell’omessa indicazione del POS e del correlato divieto di sbarco ad una precisa direttiva del MdI», la questione dell’«accertamento del carattere illegittimo della privazione dell’altrui libertà, in quanto adottata contra legem», e infine la questione dell’«assenza di cause di giustificazione con valenza scriminante ex art. 51 c.p.».

Nulla quaestio circa il primo profilo, relativo al personale e diretto coinvolgimento del Ministro degli interni nella decisione di non far sbarcare i migranti. Oltre al fatto che il Ministro in numerose occasioni pubbliche ha esplicitato come la decisione di non fare sbarcare i porti fosse a lui direttamente ascrivibile, tutti i vertici amministrativi sentiti in fase istruttoria hanno confermato il continuo e diretto coinvolgimento del Ministro nella gestione della vicenda, ed in particolare hanno chiarito come la mancata indicazione del Pos nei giorni in cui la Diciotti si trovava a Catania fosse unicamente ascrivibile alle chiare indicazioni in tal senso provenienti dal Ministro stesso.

Nella motivazione segue poi un paragrafo intitolato «La consapevolezza della “illegittimità” della restrizione dell’altrui libertà», ove peraltro il Tribunale torna ad argomentare intorno alla questione della legittimità (oggettiva) del rifiuto di sbarco alla luce della normativa internazionale (ribadendo come il contenzioso con Malta circa la responsabilità per i soccorsi non può valere a giustificare il rifiuto di sbarcare i migranti una volta che questi erano arrivati in Italia, dietro indicazione della stessa autorità italiana), piuttosto che interrogarsi circa la consapevolezza da parte del Ministro di tale normativa. Tale consapevolezza, considerato il ruolo apicale nella catena decisionale rivestito dall’imputato e l’importanza della questione, viene in sostanza ritenuta implicita dal Tribunale. In effetti, ragionando altrimenti si tratterebbe di ritenere scusante l’eventuale ignoranza da parte del Ministro della normativa nazionale e sovranazionale relativa alle materie oggetto delle sue specifiche competenze istituzionali. Un’ipotesi che peraltro non trova alcun riscontro nell’istruttoria dibattimentale, ove al contrario è emerso come i collaboratori diretti del Ministro gli avessero riferito la richiesta di Pos della Diciotti ed il Ministro avesse opposto un deciso e consapevole rifiuto all’adempimento del dovere di sbarcare i migranti. Probabilmente sarebbe stato preferibile se il Tribunale avesse più chiaramente motivato le ragioni per cui riteneva con ragionevole certezza che il Ministro conoscesse i doveri internazionali connessi alle attività di salvataggio; ma non ci sembra che in effetti vi siano elementi per sostenere l’ignoranza incolpevole della disciplina normativa da parte del Ministro, che peraltro non ha mai sostenuto tale linea difensiva nelle accese reazioni social conseguenti alla richiesta di autorizzazione.

L’ultimo profilo analizzato dal Tribunale in ordine agli elementi costitutivi del reato riguarda la configurabilità della scriminante di cui all’art. 51 cp. Il provvedimento in esame ne esclude gli estremi, in quanto il Ministro non ha agito in adempimento del suo dovere istituzionale di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica: «Lo sbarco di 177 cittadini stranieri non regolari non poteva costituire un problema cogente di “ordine pubblico” per diverse ragioni, ed in particolare: a) in concomitanza con il “caso Diciotti”, si era assistito ad altri numerosi sbarchi dove i migranti soccorsi non avevano ricevuto lo stesso trattamento; b) nessuno dei soggetti ascoltati da questo Tribunale ha riferito (come avvenuto invece per altri sbarchi) di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di “persone pericolose” per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale» (p. 40).

La sola ragione per cui per cinque giorni è stato impedito lo sbarco degli stranieri dalla Diciotti è stata secondo il Tribunale la volontà politica del Ministro di fornire un’immagine di fermezza nella trattativa in corso in sede europea circa i criteri per la ripartizione dei migranti che fuggono dalla Libia: «La decisione del Ministro non è stata adottata per problemi di ordine pubblico in senso stretto, bensì per la volontà meramente politica – “estranea” alla procedura amministrativa prescritta dalla normativa per il rilascio del POS – di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base al principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri» (ibidem).

Il Tribunale ricorda le sentenze della Corte costituzionale (n. 105/2001) e della Corte Edu (Khlaifia, 2016) che hanno affermato l’applicabilità delle garanzie sul rispetto della libertà personale anche agli stranieri in situazione di ingresso o soggiorno irregolari, e conclude che l’estraneità della decisione di impedire lo sbarco a finalità proprie dell’ufficio ricoperto dall’inquisito, che era mosso da finalità politiche estranee ai suoi doveri istituzionali, impedisce il riconoscimento della scriminante di cui all’art. 51 cp.

L’ultimo passaggio della motivazione riguarda proprio il rilievo giuridico da attribuire alla natura politica dell’atto contestato al Ministro; l’argomento della natura politica dell’atto, che alla luce del principio della separazione dei poteri ne avrebbe impedito la sindacabilità da parte dell’autorità giudiziaria, aveva condotto la Procura di Catania a chiedere l’archiviazione del procedimento, e il tema viene affrontato con particolare acribia dal Tribunale. I giudici catanesi affermano la necessità di distinguere tra «atto politico», insindacabile tout court dal giudice penale, e «atto amministrativo adottato sulla scorta di valutazioni politiche», che non si sottrae al vaglio di legalità del giudice penale. In ogni caso, «il dogma dell’intangibilità dell’atto politico è oggi presidiato da precisi contrappesi, caratterizzati dal “principio supremo di legalità”, dalla Carta costituzionale e dal rispetto dei diritti inviolabili in essa indicati, tra i quali spicca in primo luogo il diritto alla libertà personale. Segnatamente, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, i cui artt. 24 e 113 sanciscono l’indefettibilità ed effettività della tutela giurisdizionale, non è giuridicamente tollerabile l’esistenza di una particolare categoria di atti dell’esecutivo in relazione ai quali il sindacato giurisdizionale a tutela dei diritti individuali possa essere limitato o addirittura escluso» (p. 44).

L’atto politico insindacabile dal potere giudiziario è solo quello che «afferisce a questioni di carattere generale che non presentino un’immediata e diretta capacità lesiva nei confronti delle sfere soggettive individuali» (il Tribunale cita a titolo esemplificativo l’adozione di decreti leggi e di decreti legislativi, o la stipula di un’intesa con una confessione religiosa ex art. 8, comma 3 Cost.). Nel caso di specie, il rifiuto del POS configura un atto amministrativo che, mosso da motivazioni politiche, è andato tuttavia pesantemente ad incidere sui diritti degli stranieri, in violazione della normativa interna e sovranazionale, e non può per questa ragione essere sottratto al controllo giurisdizionale.

«L’atto del Ministro Sen. Matteo Salvini costituisce un atto amministrativo che, perseguendo finalità politiche ultronee rispetto a quelle prescritte dalla normativa di riferimento, ha determinato plurime violazioni di norme internazionali e nazionali, che hanno comportato l’intrinseca illegittimità dell’atto amministrativo censurata da questo Tribunale (…). Va dunque sgomberato il campo da un possibile equivoco e ribadito come questo Tribunale intenda censurare non già un atto politico dell’Esecutivo, bensì lo strumentale ed illegittimo utilizzo di una potestà ammnistrativa di cui era titolare il Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione, che costituisce articolazione del Ministero dell’interno presieduto dal Sen. Matteo Salvini» (p. 47).

Quali siano e quale rilievo abbiano le motivazioni politiche dell’agire del Ministro, sono argomenti che dovrà tenere in considerazione il Senato per decidere se concedere o meno l’autorizzazione a procedere. Il Tribunale si arresta alla constatazione che nell’esercizio delle sue funzioni il Ministro, con la decisione di impedire lo sbarco dei migranti della Diciotti, ha realizzato un fatto tipico di reato, non coperto da alcuna causa di giustificazione; i senatori decideranno se il Ministro abbia agito «per il perseguimento di un preminente interesse pubblico», e se dunque per tale reato l’autorità giudiziaria possa o meno procedere.

La correttezza della decisione del Tribunale di Catania e gli scenari prossimi-venturi

Le articolate argomentazioni appena sintetizzate ci paiono convincenti, e risultano anche, se studiate con attenzione, capaci di rispondere a molte delle critiche mosse alla decisione dal diretto interessato e da molti dei suoi sostenitori.

Il primo punto consiste nella conformità o meno alla normativa interna ed internazionale della scelta di negare l’autorizzazione allo sbarco quando i migranti a bordo della Diciotti si trovavano nel porto di Catania. Il provvedimento qui annotato ha mostrato in modo molto chiaro come il problema della responsabilità di Malta nel non adempiere al proprio obbligo di soccorso proprio nulla abbia a che vedere con la questione dello sbarco a Catania, che è l’unico frammento della vicenda ritenuto dal Tribunale di rilievo penale.

Una volta che l’Italia aveva assunto la concreta gestione del soccorso e aveva accettato, di fronte all’ostinato silenzio delle autorità maltesi, di accogliere la Diciotti a Catania, era evidente che gli stranieri dovessero sbarcare a Catania. Il problema della distribuzione dei migranti anche in altri Paesi europei si sarebbe posto in un momento successivo; ma non serve essere esperti di diritto internazionale del mare per capire che i migranti presenti da giorni in condizioni precarie su una nave militare italiana ancorata in un porto italiano dovevano essere immediatamente sbarcati e soccorsi in territorio italiano. Invocare la responsabilità di Malta per negare il dovere di fornire un POS una volta che i naufraghi erano arrivati a Catania, significa semplicemente sviare il discorso, sovrapponendo il problema della distribuzione dei flussi migratori a livello europeo e dell’incapacità di Malta di far fronte ai propri obblighi in materia Sar, al dovere di fornire un luogo di sbarco sicuro a coloro che in un modo o nell’altro erano comunque stati soccorsi da una nave italiana, e si trovavano in un porto italiano.

Insomma, la controversia con Malta o il problema della distribuzione dei migranti a livello europeo sono irrilevanti al fine di valutare la legittimità del trattenimento per diversi giorni sulla nave Diciotti di soggetti, che avevano secondo la normativa interna ed internazionale il diritto a ricevere al più presto l’indicazione di un luogo sicuro dove poter sbarcare e ricevere assistenza, quale che fosse poi il loro destino e la loro destinazione finale. Il Ministro ha consapevolmente deciso di trattenere senza alcuna base legale i migranti sulla nave Diciotti, per apparire più forte sullo scenario politico internazionale ad avere più peso nelle trattative in corso a livello europeo per una gestione condivisa dei flussi di migranti dalla Libia. Ma è evidente che tale scelta politica sia stata attuata fuori dalla cornice normativa in cui è disciplinata la privazione dello straniero comunque presente nel territorio dello Stato.

Ammesso allora che la privazione della libertà c’è stata ed è stata illegale, si pone il problema più delicato, e che nel dibattito pubblico ha assunto un peso determinante. Il Tribunale ha travalicato le proprie competenze? I giudici di Catania si sono arrogati il potere di sindacare le scelte politiche assunte dal Governo con il consenso degli elettori, violando in questo modo il principio della separazione dei poteri? Anche in questo caso, le motivazioni del provvedimento indicano le ragioni per cui la richiesta di autorizzazione non comporta alcuna ingerenza del potere giudiziario nelle prerogative politiche dell’esecutivo.

È sufficiente, per giungere a tale conclusione, prendere in considerazione l’insieme della procedura delineata dalla legge costituzionale del 1989 riguardo all’accertamento dei cd. reati ministeriali, da intendere ai sensi dell’art. 96 Cost. come quei reati commessi dal Presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni. Come correttamente ricorda il Tribunale, proprio la particolare natura politica degli atti ministeriali ha indotto il legislatore costituzionale a prevedere che la decisione di procedere all’accertamento di eventuali responsabilità penali conseguenti alla loro adozione non spetti solo alla magistratura penale, posto che il Parlamento può negare l’autorizzazione a procedere quando ritenga che le condotte integranti reato fossero volte al perseguimento di un «preminente interesse pubblico». Lo schema è molto chiaro: la magistratura penale accerta secondo i criteri del diritto penale comune se il Ministro abbia commesso un reato nell’esercizio del proprio potere di governo; il Parlamento può assumere la decisione politica di negare l’autorizzazione a procedere, se la commissione del reato era funzionale alla tutela di un più rilevante interesse pubblico.

Ritenere allora, come ha fatto la Procura di Catania nella richiesta di archiviazione (della quale, peraltro, sono noti a chi scrive solo gli stralci pubblicati sulla stampa, e i brevi cenni contenuti nel provvedimento qui annotato), che la magistratura penale dovesse archiviare il procedimento in ragione delle finalità politiche che avevano mosso la decisione del Ministro, significa confondere le attribuzioni che il sistema costituzionale di accertamento dei reati ministeriali attribuisce rispettivamente al potere giudiziario e al Parlamento. I giudici devono valutare la commissione di un reato; nel caso di specie, valutare se la significativa privazione di libertà degli stranieri sulla Diciotti conseguente alla decisione del Ministro di vietare lo sbarco era stata disposta secondo la legge, configurandosi in caso contrario il delitto di sequestro di persona aggravato. Il Senato dovrà ora decidere se le finalità politiche addotte dal Ministro a giustificazione del proprio operato siano talmente pregnanti da imporre alla magistratura di arrestarsi nel procedimento di accertamento delle responsabilità.

La separazione dei poteri, per concludere sul punto, non può comportare l’irragionevole conclusione che i membri del Governo sono immuni dalla giurisdizione penale ogniqualvolta esercitino le proprie funzioni politiche, che come ovvio devono invece sempre svolgersi nel quadro della legalità interna ed internazionale. Come tutti i cittadini, anche i Ministri, se nell’esercizio delle loro funzioni commettono dei reati, ne devono rispondere davanti alla giustizia penale, quali che siano i moventi politici che stanno a fondamento delle loro azioni. Il sistema costituzionale, proprio in ossequio al principio della separazione dei poteri, prevede tuttavia che il potere politico possa assumersi, mediante il voto del Parlamento, la responsabilità politica dell’azione del Ministro, che può venire ritenuta non meritevole di essere perseguita in quanto funzionale al raggiungimento di un più alto interesse pubblico. Ecco perché la magistratura non compie alcuna invasione di campo quando, constatata la commissione di un reato ad opera della condotta di un Ministro, non compie direttamente una valutazione circa la rilevanza politica di tale condotta, archiviando la notitia criminis perché connotata da motivi politici, ma correttamente chiede al Parlamento di decidere se dare o meno copertura politica all’operato del Ministro.

La questione passa ora dunque nelle mani del Senato. Ai sensi dell’art. 9, comma 2, legge. cost. n. 1/1989, prima la Giunta competente per le autorizzazioni a procedere riferisce «con relazione scritta» all’assemblea, «dopo avere sentito i soggetti interessati ove lo ritenga opportuno o se questi lo richiedano»; entro sessanta giorni dalla trasmissione dalla richiesta al Senato (avvenuta il 23 gennaio), l’assemblea, a maggioranza assoluta dei suoi membri può «con valutazione insindacabile» negare l’autorizzazione a procedere quando ritiene che «l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo».

Non rimane, dunque, che attendere lo svolgimento dell’attività della Giunta e l’esito della deliberazione che assumerà l’assemblea del Senato. Vogliamo ora in conclusione provare a svolgere qualche cursoria riflessione su due problemi che ci paiono in questo momento centrali: quello dei presupposti e dei limiti del potere discrezionale del Parlamento in ordine alla richiesta di autorizzazione a procedere; e quello dell’eventuale giustiziabilità della decisione del Parlamento di fronte alla Corte costituzionale.

Quanto alla prima questione, dal testo della norma (di rango costituzionale) che disciplina l’autorizzazione a procedere si evincono in particolare due elementi che ci paiono meritevoli di considerazione.

In primo luogo, la norma prevede il quorum della maggioranza assoluta dei componenti per negare l’autorizzazione a procedere, mostrando l’attenzione del legislatore costituzionale a bilanciare l’ampio potere discrezionale assegnato al Parlamento con il richiedere che ad assumersi la responsabilità di impedire per ragioni di interesse superiore alla magistratura penale di procedere all’accertamento dei reati sia una maggioranza qualificata dei componenti l’assemblea. Una sorta di favor per il proseguimento dell’azione penale, che conferma la natura eccezionale dei casi in cui il movente politico può rendere lecita la commissione di reati [1].

Il secondo punto riguarda proprio l’ampiezza del potere discrezionale che la legge costituzionale attribuisce al Parlamento, non solo per la definizione molto ampia dei requisiti che legittimano il diniego dell’autorizzazione, ma in particolare per la precisazione che il Parlamento si esprime «con valutazione insindacabile». È chiara la volontà di sottolineare la natura politica, e non più tecnico-giuridica, del giudizio che il Parlamento è chiamato a svolgere. La sua diretta legittimazione democratica gli consente di dichiarare «insindacabilmente» non perseguibile una condotta che pur potrebbe costituire reato, quando la ritiene funzionale ad un interesse pubblico superiore.

Nel caso che ci interessa, il problema ci pare presentarsi in questi termini: la tutela dei confini e la gestione dei flussi migratori, invocate dal Ministro a giustificazione della scelta di impedire lo sbarco dei migranti dalla Diciotti, rendono non perseguibile la privazione per 5 giorni della libertà personale di 177 persone, che sono state trattenute in violazione della normativa in materia interna ed internazionale? Ci auguriamo che su questo interrogativo, dai profondi risvolti etici oltre che giuridici, si voglia concentrare il dibattito politico e parlamentare, più che su vacui e inconferenti richiami alla presunzione di innocenza o alla separazione dei poteri. Il Parlamento è libero di fornire a tale domanda la risposta «insindacabile» che politicamente la maggioranza riterrà opportuna, ma almeno è auspicabile che la questione, molto seria, posta dal Tribunale di Catania venga affrontata nel suo reale contenuto, e non ricalcando stereotipi conflittuali tra magistratura e politica, che ottengono il solo risultato di impedire un reale confronto sul merito politico della questione.

Si tratta, in effetti, di una questione che tocca da vicino i fondamenti stessi del sistema democratico e di tutela dei diritti fondamentali. La questione che al Parlamento è sottoposta porta infatti con sé il problema quanto mai delicato di fissare i limiti entro cui il potere governativo può legittimamente esplicare la propria volontà politica. Proprio la legge costituzionale sui reati ministeriali ci dice che, a differenza che per gli altri cittadini, per i Ministri il limite fissato dalla legge penale non è di per sé sempre invalicabile nell’ambito della loro attività funzionale, perché il Parlamento, con valutazione insindacabile, può ritenere la commissione di un reato ministeriale non perseguibile per ragioni politiche. A bene vedere, è la stessa previsione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere a comportare che la legge penale non è di per sé sempre un limite all’azione politica di governo.

Eppure, è ovvio che in un sistema costituzionale e democratico un limite all’agire politico ci deve essere. Nessuno può avere dubbi che il Parlamento non potrebbe ad esempio, pur invocando il proprio potere discrezionale, negare l’autorizzazione a procedere qualora la magistratura fornisse le prove ad esempio che una decisione di un Ministro ha provocato la morte di più persone. Nel dibattito relativo ai casi di chiusura dei porti, del resto, si considera come implicito, anche da parte dei sostenitori della linea più intransigente, che la vita dei profughi non possa essere messa a rischio dal divieto di sbarcare. La politica quindi, anche quando si esprime con le forme più dure, riconosce l’esistenza di un limite oltre il quale non può spingersi, e nel caso dei migranti nei porti il limite è stato individuato nella tutela della vita umana dei migranti. Ma questo limite, che fissa i termini entro cui neppure la più alta ragion di Stato può condurre a legittimare un fatto lesivo dei diritti fondamentali, può essere davvero nella libera e assoluta disponibilità del potere politico, o il sistema costituzionale e sovranazionale vigente pone dei vincoli alla sua fissazione?

Nel sistema di tutela convenzionale dei diritti fondamentali, questo limite come noto è fissato in maniera molto netta all’art. 15 Cedu, secondo cui neppure nei casi estremi di urgenza, come «in caso di guerra o in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della nazione», lo Stato può derogare alla tutela dei diritti garantiti agli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti), 4 § 1 (divieto di schiavitù) e 7 (nullum crimen). Il sistema costituzionale non prevede, come noto, alcuna disposizione relativa alla possibile deroga ai diritti fondamentali determinata da ragioni eccezionali, ma l’indicazione convenzionale ci pare senz’altro da tenere in considerazione anche in prospettiva costituzionale, considerato il rilievo para-costituzionale che le disposizioni convenzionali assumono a livello interno per il tramite dell’art. 117 Cost.

In questa prospettiva, il problema rispetto al caso della Diciotti sarebbe quello di valutare se il trattenimento dei migranti – sicuramente lesivo del diritto alla libertà personale riconosciuto dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 Cedu – sia altresì in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 Cedu, cui le autorità italiane si sono convenzionalmente impegnate a non derogare neppure nei casi più estremi di pericolo per la Nazione. La questione non è stata oggetto di particolare attenzione da parte dei giudici catanesi, posto che il reato di sequestro di persona contestato al Ministro era configurabile a prescindere dalle condizioni in cui avveniva il trattenimento. E tuttavia, se si accoglie l’idea che i limiti all’inderogabilità dei diritti convenzionali fissino anche il perimetro entro cui può esercitarsi il potere di governo, proprio l’attenta valutazione delle condizioni in cui versavano i migranti dovrebbe risultare decisiva per decidere se i fatti commessi possano essere legittimamente dichiarati improcedibili da una discrezionale scelta politica del Parlamento.

Accolta l’idea che sia necessario porre dei limiti non solo politici, ma anche giuridici, all’azione di governo, il successivo problema da risolvere risulta quello della giustiziabilità di tali limiti. Nel sistema convenzionale la risposta è chiara: lo Stato risponde sempre delle violazioni dei diritti inderogabili di cui all’art. 15 Cedu commessi dai suoi rappresentanti, quale che siano le ragioni politiche che ne giustifichino il compimento. In ambito interno, il problema si fa più arduo, anche perché mancano precedenti specifici. Qualora il Parlamento dovesse negare l’autorizzazione a procedere, ritenendo che la privazione di libertà e i trattamenti inumani e degradanti subiti dai migranti della Diciotti siano giustificati dalla necessità politica di tutelare i confini dello Stato, potrebbe il Tribunale di Catania sollevare un conflitto di attribuzione con il Senato di fronte alla Corte costituzionale, adducendo che il Senato ha ecceduto i poteri conferitigli dalla legge costituzionale del 1989?

Il problema, inedito a quanto ci risulta nella giurisprudenza costituzionale, è stato poco indagato anche dalla dottrina, specie penalistica. Uno dei pochi contributi che prende specifica posizione sul punto ritiene di non escludere la possibilità che la Corte costituzionale censuri l’uso distorto del proprio potere discrezionale da parte del Parlamento, anche se il vaglio della Corte deve stare attento a non sindacare il merito delle scelte politiche attribuite in via esclusiva al Parlamento dalla legge costituzionale del 1989 [2]. A noi pare in effetti che sarebbe disarmonico rispetto al complessivo sistema costituzionale di bilanciamento tra i poteri, prevedere nel caso dei reati ministeriali che il Parlamento possa opporre al potere giudiziario un rifiuto del tutto sottratto al giudizio di legittimità della Corte costituzionale. La legge costituzionale è chiara nel prevedere che il potere dell’organo parlamentare si esercita sulla base di determinati presupposti, il cui rispetto non può essere sottratto al controllo della Corte costituzionale, pena un pericoloso sbilanciamento del sistema costituzionale di check and balance. Qualora dunque la Corte venisse investita della questione, dovrebbe certo astenersi dal valutare nel merito la legittimità politica della decisione del Parlamento, ma non dovrebbe invece astenersi dal valutare se il rifiuto opposto dal Parlamento all’autorità giudiziaria sia conforme al complessivo sistema normativo di valori che l’azione di ogni autorità pubblica, in uno Stato democratico, è tenuta a rispettare; ed in questo senso, lo ripetiamo, il catalogo di cui all’art. 15 Cedu delinea a nostro avviso in modo anche costituzionalmente significativo il perimetro di liceità delle azioni di governo, quale che sia il contesto in cui intervengono o la finalità che perseguono.

La natura “a caldo” di queste righe non consente di soffermarci più a lungo sulle complesse questioni, penalistiche e costituzionalistiche, che abbiamo appena cercato di evidenziare. Ci permettiamo in conclusione di auspicare che nelle prossime settimane, che vedranno impegnato il Senato nella decisione demandatagli dal Tribunale di Catania, la comunità dei giuristi voglia fornire un contributo significativo al dibattito pubblico che si svilupperà in Senato. Al di là della decisione che il Parlamento sovranamente vorrà assumere, ci pare importante che l’opinione pubblica sia resa consapevole dell’importanza della decisione che il Senato è chiamato a prendere. Si tratta di capire sino a che punto l’attuazione di una pur legittima pretesa politica possa andare ad incidere sui diritti fondamentali delle persone, e su dove di conseguenza sia fissato il limite che in uno Stato democratico non può essere superato dall’azione di governo. Su un tema di tale portata, sarebbe fondamentale avere un’opinione pubblica capace di prendere posizione in modo consapevole. I limiti al potere politico devono trovare affermazione, se necessario, anche di fronte alle Corti supreme, italiane e europee; ma il vero fondamento dei valori affermati nelle Carte dei diritti fondamentali e nella Costituzione sta solo nella condivisione di tale valori da parte dei consociati, e la vicenda della Diciotti può essere una occasione preziosa per condurre il dibattito pubblico a riflettere seriamente sulla pericolosa direzione che sta prendendo, anche nelle ore in cui si scrive, la politica governativa in materia di soccorso e assistenza ai naufraghi provenienti dalla Libia.


Foto : Diciotti – Di A. Deligiannis

The post La richiesta di autorizzazione a procedere nel caso Diciotti appeared first on Asgi.

L’iscrizione anagrafica e l’accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo

L’apparente preclusione all’iscrizione anagrafica del richiedente protezione internazionale, derivante dalle modifiche introdotte dal dl 113/2018, può essere superata attraverso l’interpretazione sistematica delle norme ancora in vigore. In mancanza, sarà necessario il rinvio alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 3 della Costituzione. Dalla Rubrica “Diritti senza confini”.

di Daniela Consoli, avvocata del Foro di Firenze e Nazzarena Zorzella, avvocata del Foro di Bologna

 

1. L’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo: preclusa o consentita?

Il dl n. 113/2018 [1] ha apportato significative modificazioni alla condizione giuridica del richiedente il riconoscimento della protezione internazionale, tra le quali l’apparente preclusione all’iscrizione anagrafica. All’art. 4 del d.lgs 142/2015 è stato, infatti, aggiunto il comma 1-bis secondo cui il permesso di soggiorno per richiesta asilo «non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».

La norma è stata subito interpretata come preclusione all’iscrizione anagrafica per il (solo) richiedente asilo, suscitando immediate critiche di sospetta illegittimità costituzionale poiché esclude dal diritto fondamentale alla residenza anagrafica una specifica categoria di persone, in difetto di ragionevole motivazione che giustifichi il differente trattamento, con violazione dell’art. 3 Cost. [2].

Nel contempo, la disposizione introdotta ha sollevato proteste anche da parte di alcuni sindaci, alcuni dei quali ne hanno preannunciato la disapplicazione [3].

In realtà, la norma, a prescindere dalle intenzioni del legislatore “storico”, non pone alcun esplicito divieto, ma si limita ad escludere che la particolare tipologia di permesso di soggiorno motivata dalla richiesta asilo possa essere documento utile per formalizzare la domanda di residenza, con ciò modificando il previgente sistema. È noto, però, che non sarebbe concepibile nel nostro ordinamento un divieto normativo implicito di un diritto soggettivo, come nel caso in esame quello all’iscrizione anagrafica.

Nella specie si tratterebbe di un divieto implicito ed in palese contrasto non solo con una serie di norme gerarchicamente superiori [4] ma con gli stessi principi generali in materia di immigrazione che trattano di iscrizioni anagrafiche e che non sono stati modificati dal cd. decreto sicurezza. In particolare, si veda l’art. 6, comma 7, d.lgs 286/1998, secondo il quale le «iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani».

La norma, come detto, non pone un divieto e tuttavia nell’escludere che il permesso per richiesta asilo non rientri tra la documentazione utile per l’iscrizione anagrafica non ne individua un altro e dunque è compito dell’interprete procedere, colmando la lacuna e risalendo alla funzione che nell’ambito del diritto/dovere alla residenza anagrafica svolge l’esibizione del permesso di soggiorno.

La residenza, secondo la definizione del codice civile, è, semplicemente il «luogo in cui la persona ha la dimora abituale» (art. 43, comma 2, cc). Ora se il cittadino italiano dovrà dimostrare unicamente la stabile permanenza in un luogo e la volontà di rimanervi (cfr. a titolo d’esempio, Cass., sez. II, 14 marzo 1986, n.1738; Cass. 5 febbraio 1985, n. 791; Cass. Sez. I, 21 giugno 1955, n. 1925; Cass. Sez I, 17 ottobre 1955 n. 3226; Cass. Sez. II, 17 gennaio 1972 n. 126) [5], il cittadino straniero dovrà dimostrare anche di essere regolarmente soggiornante in Italia, come espressamente richiede la legge 1228/1954, cd. “legge anagrafica” e il dPR n. 223/1989, cd. “regolamento anagrafico” (art. 6, comma 7, d.lgs 286/1998) [6].

Come precisato nelle Linee guida 2014 elaborate in collaborazione con il Ministero dell’interno [7] «Devono ritenersi illegittime quelle prassi volte a richiedere agli stranieri, in aggiunta alla dimora abituale e alla regolarità del soggiorno, ulteriori condizioni per l’iscrizione anagrafica» (cfr. Circ. Min. Interno, n. 8 del 1995; n. 2 del 1997).

Posto quindi che l’esibizione del permesso di soggiorno, ai fini della iscrizione anagrafica, assolve al compito di dimostrare la regolare presenza del cittadino non comunitario sul territorio italiano, gli interpreti e gli ufficiali di Governo dovranno chiedersi, nel silenzio del legislatore, quale documento possa, invece del permesso di soggiorno, assolvere alla funzione voluta dalla legge.

Ed invero, per i richiedenti la protezione internazionale la regolarità del soggiorno, più che dal permesso di soggiorno che teoricamente potrebbero anche non ritirare o ottenere in ritardo come spesso accade, è comprovata dall’avvio del procedimento volto al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione e quindi (tralasciando in questo contesto la semplice dichiarazione di volontà) dalla compilazione del cd. “modello C3”, e/o dalla identificazione effettuata dalla questura nell’occasione. L’uno o entrambi i documenti certificano la regolarità del soggiorno in Italia, assolvendo perfettamente alle condizioni previste dalla legge per l’iscrizione anagrafica.

Il tutto in linea, e comunque non in contraddizione, con la modifica legislativa di cui si discute.

Ecco, pertanto, che le nuove disposizioni di cui al dl 113/2018 in materia di iscrizione anagrafica del (solo) richiedente asilo possono essere interpretate con effetto di non impedire detta iscrizione.

Se non interpretata in questo senso, la modifica introdotta dal decreto sicurezza non potrà non essere rinviata alla Corte costituzionale, a fronte di espresso diniego di iscrizione anagrafica da parte dell’ufficiale di stato civile del comune.

2. L’accesso ai servizi in difetto di iscrizione anagrafica

Un ulteriore aspetto da chiarire, visto il travisamento che traspare dagli organi di stampa, riguarda le conseguenze della mancata iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, nel caso prevalga l’interpretazione preclusiva dianzi indicata. Va, infatti, precisato che l’art. 5 del d.lgs 142/2015, novellato dal dl 113, garantisce espressamente ai richiedenti asilo l’accesso a tutti i servizi previsti dal d.lgs stesso ed anche a quelli «comunque erogati sul territorio» sulla base del domicilio dichiarato al momento della formalizzazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale [8].

Questo significa che il/la richiedente asilo ha diritto a tutte le prestazioni erogate sul territorio comunale, evidenziando che la disposizione non parla solo di servizi erogati dalla pubblica amministrazione e pertanto vanno compresi anche quelli di pertinenza di soggetti privati, quali le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari, etc.

A titolo esemplificativo, dunque, si possono ricomprendere i servizi afferenti all’istruzione (scuola, nidi d’infanzia) e alla formazione, anche professionale, ai tirocini formativi, alle misure di welfare locale (comunale e regionale), all’iscrizione ai Centri per l’impiego, all’apertura di conti correnti presso le banche o le Poste italiane, etc.

Per quanto riguarda l’accesso ai corsi di formazione, è utile precisare che l’abrogazione disposta dal dl 113/2018 dell’art. 22, comma 3, d.lgs. 142/2015 (che stabiliva che «I richiedenti, che usufruiscono delle misure di accoglienza erogate ai sensi dell’articolo 14, possono frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell’ente locale dedicato all’accoglienza del richiedente») riguarda i corsi predisposti nell’ambito del programma di accoglienza (Sprar o Cas) ma non certamente quelli offerti sul territorio comunale indistintamente a tutti. Certo, si porrà il problema del costo per garantire la partecipazione a detti corsi, tenuto conto che i nuovi capitolati d’appalto per la gestione delle strutture di accoglienza non prevedono obbligatoriamente l’erogazione di servizi di tal genere e in tal senso avranno un ruolo decisivo quegli enti locali che introdurranno nel bilancio comunale o regionale voci di spesa destinate anche ai richiedenti asilo, per rendere effettiva l’accoglienza e gestire razionalmente il fenomeno.

Nello specifico, invece, dell’iscrizione ai centri per l’impiego, la disposizione di cui all’art. 5, comma 3, d.lgs. 142/2015 va coordinata con quanto previsto dall’art. 22 del medesimo d.lgs, secondo cui, trascorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, il/la richiedente asilo ha diritto di svolgere l’attività lavorativa [9]. Diritto che comprende necessariamente anche l’iscrizione al centro per l’impiego, propedeutico alla ricerca di opportunità lavorative.

Del resto, l’art. 11, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 150/2015, nel riorganizzare il Servizio regionale per il lavoro (che comprende anche i centri per l’impiego), stabilisce il principio della «c) disponibilità di servizi e misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla regione o provincia autonoma di residenza». Se si prescinde dalla regione o provincia autonoma di residenza, è evidente che con la locuzione «a tutti i residenti sul territorio italiano» debba intendersi non la residenza anagrafica ma quella civilistica (art. 43 cc).

In questi termini si è espressa anche la circolare Anpal del 23 maggio 2018, pur precedente l’entrata in vigore del dl 113/2018 [10].

Pertanto, l’iscrizione ai centri per l’impiego dovrà essere consentita anche in assenza di iscrizione anagrafica.

Per quanto riguarda l’accesso ai servizi erogati da soggetti privati (banche, poste, assicurazioni, agenzie immobiliari, etc.), va precisato che nessuna norma prevede che venga esibito il certificato di residenza, ma solo un documento di riconoscimento, che nel caso dei richiedenti asilo è il permesso di soggiorno per richiesta asilo. L’art. 4, comma 1, d.lgs. 142/2015, infatti, stabilisce che «»[…] Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445» [11].

Peraltro, l’art. 126-noviesdecies d.lgs 385/93 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) stabilisce espressamente che, per l’apertura di un conto corrente (conto di base):

«Tutti i consumatori soggiornanti legalmente nell’Unione europea, senza discriminazioni e a prescindere dal luogo di residenza, hanno diritto all’apertura di un conto di base nei casi e secondo le modalità previste dalla presente sezione.

3. Ai fini della presente sezione, per consumatore soggiornante legalmente nell’Unione europea si intende chiunque abbia il diritto di soggiornare in uno Stato membro dell’Unione europea in virtù del diritto dell’Unione o del diritto italiano, compresi i consumatori senza fissa dimora e i richiedenti asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, del relativo protocollo del 31 gennaio 1967 nonché ai sensi degli altri trattati internazionali in materia».

È, pertanto, chiaro che anche per l’apertura di un conto corrente non è necessario avere la residenza o la carta di identità ma è sufficiente il permesso di soggiorno, anche per richiesta asilo.

Diritto che va rigorosamente fatto rispettare, tenuto anche conto che dal 1° luglio 2018 il pagamento degli stipendi non può essere fatto in contanti, rendendo necessaria l’attivazione di un conto corrente (art. 1, comma 910, legge 205/2017).

Un’ultima precisazione va fatta con riguardo all’iscrizione al Servizio sanitario nazionale, tenuto conto che qualche organo di stampa riporta preoccupazioni di amministratori pubblici che temono l’impedimento per i richiedenti asilo in difetto di residenza anagrafica.

Va, infatti, evidenziato che l’iscrizione al Ssn è espressamente prevista anche per i richiedenti asilo dall’art. 34 TU immigrazione d.lgs 286/98, il cui comma 1 stabilisce che:

«Hanno l’obbligo di iscrizione al servizio sanitario nazionale e hanno parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene all’obbligo contributivo, all’assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario nazionale e alla sua validità temporale:

a) gli stranieri regolarmente soggiornanti che abbiano in corso regolari attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo o siano iscritti nelle liste di collocamento;

b) gli stranieri regolarmente soggiornanti o che abbiano chiesto il rinnovo del titolo di soggiorno, per lavoro subordinato, per lavoro autonomo, per motivi familiari, per asilo, per protezione sussidiaria, per casi speciali, per protezione speciale, per cure mediche ai sensi dell’articolo 19, comma 2, lettera d-bis), per richiesta di asilo, per attesa adozione, per affidamento, per acquisto della cittadinanza; (361)

b-bis) i minori stranieri non accompagnati, anche nelle more del rilascio del permesso di soggiorno, a seguito delle segnalazioni di legge dopo il loro ritrovamento nel territorio nazionale».

Pertanto, l’accesso al Ssn dovrà essere garantito anche ai richiedenti asilo, pur in difetto di residenza anagrafica ma sulla base del solo domicilio eletto in sede di presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale.

***

Queste considerazioni consentono agli amministratori locali di richiedere il rispetto rigoroso della legge, sia per quanto riguarda l’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo (richiedendo un documento di riconoscimento diverso dal permesso di soggiorno, ovverosia il Modello C3 di identificazione del richiedente stesso da parte dell’autorità di pubblica sicurezza), sia garantendo che, anche se privi di iscrizione anagrafica, ai richiedenti asilo sia riconosciuto il diritto di accesso ai servizi erogati sul territorio, in applicazione rigorosa della legge vigente.

[1] Entrato in vigore il 5 ottobre 2018 e convertito con modificazioni in legge n. 132/2018.
[2] Cfr. il documento Asgi, Manifeste illegittimità costituzionali delle nuove norme concernenti permessi di soggiorno per esigenze umanitarie, protezione internazionale, immigrazione e cittadinanza previste dal decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/10/ASGI_DL_113_15102018_manifestioni_illegittimita_costituzione.pdf 

[3] Direttiva del sindaco di Palermo del 21 dicembre 2018, prot. n. 1807620, https://bit.ly/2FduNqe.
[4] Così ad esempio, e senza pretesa di esaustività, contrasterebbe con l’art. 2 del Protocollo n. 4 allegato alla Cedu, ratificato e reso esecutivo in Italia con dPR 14 aprile 1982, n. 217 sulla Libertà di circolazione, che sancisce: «Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza», e con l’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici: «Ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio», adottato dall’Assemblea generale il 16 dicembre 1966, e reso esecutivo in Italia con legge. n. 881 del 25 ottobre 1977.
[5] Quindi, alla presenza fisica in un determinato luogo (elemento importante ma mai risolutivo per stabilire la dimora abituale di un soggetto in un determinato luogo, posto che la verifica dell’elemento oggettivo attraverso il riscontro della sua presenza fisica è un’operazione qualitativa ancor prima che quantitativa), deve affiancarsi un elemento soggettivo dato dall’intenzionalità di risiedere in quel luogo, ove porre il proprio centro delle relazioni familiari e sociali.
[6] Ciò anche in forza di quanto previsto dal comma 2 dello stesso art. 6, che richiede allo straniero l’esibizione del permesso di soggiorno in sede di «rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati».
[7] Servizio centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, Ministero dell’Interno, UNHCR, A.N.U.S.C.A., ASGI, Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale, dicembre 2014, https//www.asgi.it/notizie/linee-guida-sul-diritto-alla-residenza-dei-richiedenti-e-beneficiari-di-protezione-internazionale/
[8] Art. 5, comma 3, d.lgs. 142/2015: «L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2».
[9] Art. 22, comma 1, d.lgs. 142/2015: «Il permesso di soggiorno per richiesta asilo di cui all’articolo 4 consente di svolgere attività lavorativa, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda, se il procedimento di esame della domanda non è concluso ed il ritardo non può essere attribuito al richiedente».
[10] Anpal, circolare del 23 maggio 2018 n. 6202, https://bit.ly/2FaC5ed.
[11] Art. 1 dPR 445/2000:

«Ai fini del presente testo unico si intende per:

[…] c) DOCUMENTO DI RICONOSCIMENTO ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consenta l’identificazione personale del titolare; […]».


L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica

The post L’iscrizione anagrafica e l’accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo appeared first on Asgi.

L’iscrizione anagrafica e l’accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo

L’apparente preclusione all’iscrizione anagrafica del richiedente protezione internazionale, derivante dalle modifiche introdotte dal dl 113/2018, può essere superata attraverso l’interpretazione sistematica delle norme ancora in vigore. In mancanza, sarà necessario il rinvio alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 3 della Costituzione. Dalla Rubrica “Diritti senza confini”.

di Daniela Consoli, avvocata del Foro di Firenze e Nazzarena Zorzella, avvocata del Foro di Bologna

 

1. L’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo: preclusa o consentita?

Il dl n. 113/2018 [1] ha apportato significative modificazioni alla condizione giuridica del richiedente il riconoscimento della protezione internazionale, tra le quali l’apparente preclusione all’iscrizione anagrafica. All’art. 4 del d.lgs 142/2015 è stato, infatti, aggiunto il comma 1-bis secondo cui il permesso di soggiorno per richiesta asilo «non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286».

La norma è stata subito interpretata come preclusione all’iscrizione anagrafica per il (solo) richiedente asilo, suscitando immediate critiche di sospetta illegittimità costituzionale poiché esclude dal diritto fondamentale alla residenza anagrafica una specifica categoria di persone, in difetto di ragionevole motivazione che giustifichi il differente trattamento, con violazione dell’art. 3 Cost. [2].

Nel contempo, la disposizione introdotta ha sollevato proteste anche da parte di alcuni sindaci, alcuni dei quali ne hanno preannunciato la disapplicazione [3].

In realtà, la norma, a prescindere dalle intenzioni del legislatore “storico”, non pone alcun esplicito divieto, ma si limita ad escludere che la particolare tipologia di permesso di soggiorno motivata dalla richiesta asilo possa essere documento utile per formalizzare la domanda di residenza, con ciò modificando il previgente sistema. È noto, però, che non sarebbe concepibile nel nostro ordinamento un divieto normativo implicito di un diritto soggettivo, come nel caso in esame quello all’iscrizione anagrafica.

Nella specie si tratterebbe di un divieto implicito ed in palese contrasto non solo con una serie di norme gerarchicamente superiori [4] ma con gli stessi principi generali in materia di immigrazione che trattano di iscrizioni anagrafiche e che non sono stati modificati dal cd. decreto sicurezza. In particolare, si veda l’art. 6, comma 7, d.lgs 286/1998, secondo il quale le «iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani».

La norma, come detto, non pone un divieto e tuttavia nell’escludere che il permesso per richiesta asilo non rientri tra la documentazione utile per l’iscrizione anagrafica non ne individua un altro e dunque è compito dell’interprete procedere, colmando la lacuna e risalendo alla funzione che nell’ambito del diritto/dovere alla residenza anagrafica svolge l’esibizione del permesso di soggiorno.

La residenza, secondo la definizione del codice civile, è, semplicemente il «luogo in cui la persona ha la dimora abituale» (art. 43, comma 2, cc). Ora se il cittadino italiano dovrà dimostrare unicamente la stabile permanenza in un luogo e la volontà di rimanervi (cfr. a titolo d’esempio, Cass., sez. II, 14 marzo 1986, n.1738; Cass. 5 febbraio 1985, n. 791; Cass. Sez. I, 21 giugno 1955, n. 1925; Cass. Sez I, 17 ottobre 1955 n. 3226; Cass. Sez. II, 17 gennaio 1972 n. 126) [5], il cittadino straniero dovrà dimostrare anche di essere regolarmente soggiornante in Italia, come espressamente richiede la legge 1228/1954, cd. “legge anagrafica” e il dPR n. 223/1989, cd. “regolamento anagrafico” (art. 6, comma 7, d.lgs 286/1998) [6].

Come precisato nelle Linee guida 2014 elaborate in collaborazione con il Ministero dell’interno [7] «Devono ritenersi illegittime quelle prassi volte a richiedere agli stranieri, in aggiunta alla dimora abituale e alla regolarità del soggiorno, ulteriori condizioni per l’iscrizione anagrafica» (cfr. Circ. Min. Interno, n. 8 del 1995; n. 2 del 1997).

Posto quindi che l’esibizione del permesso di soggiorno, ai fini della iscrizione anagrafica, assolve al compito di dimostrare la regolare presenza del cittadino non comunitario sul territorio italiano, gli interpreti e gli ufficiali di Governo dovranno chiedersi, nel silenzio del legislatore, quale documento possa, invece del permesso di soggiorno, assolvere alla funzione voluta dalla legge.

Ed invero, per i richiedenti la protezione internazionale la regolarità del soggiorno, più che dal permesso di soggiorno che teoricamente potrebbero anche non ritirare o ottenere in ritardo come spesso accade, è comprovata dall’avvio del procedimento volto al riconoscimento della fondatezza della pretesa di protezione e quindi (tralasciando in questo contesto la semplice dichiarazione di volontà) dalla compilazione del cd. “modello C3”, e/o dalla identificazione effettuata dalla questura nell’occasione. L’uno o entrambi i documenti certificano la regolarità del soggiorno in Italia, assolvendo perfettamente alle condizioni previste dalla legge per l’iscrizione anagrafica.

Il tutto in linea, e comunque non in contraddizione, con la modifica legislativa di cui si discute.

Ecco, pertanto, che le nuove disposizioni di cui al dl 113/2018 in materia di iscrizione anagrafica del (solo) richiedente asilo possono essere interpretate con effetto di non impedire detta iscrizione.

Se non interpretata in questo senso, la modifica introdotta dal decreto sicurezza non potrà non essere rinviata alla Corte costituzionale, a fronte di espresso diniego di iscrizione anagrafica da parte dell’ufficiale di stato civile del comune.

2. L’accesso ai servizi in difetto di iscrizione anagrafica

Un ulteriore aspetto da chiarire, visto il travisamento che traspare dagli organi di stampa, riguarda le conseguenze della mancata iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, nel caso prevalga l’interpretazione preclusiva dianzi indicata. Va, infatti, precisato che l’art. 5 del d.lgs 142/2015, novellato dal dl 113, garantisce espressamente ai richiedenti asilo l’accesso a tutti i servizi previsti dal d.lgs stesso ed anche a quelli «comunque erogati sul territorio» sulla base del domicilio dichiarato al momento della formalizzazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale [8].

Questo significa che il/la richiedente asilo ha diritto a tutte le prestazioni erogate sul territorio comunale, evidenziando che la disposizione non parla solo di servizi erogati dalla pubblica amministrazione e pertanto vanno compresi anche quelli di pertinenza di soggetti privati, quali le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari, etc.

A titolo esemplificativo, dunque, si possono ricomprendere i servizi afferenti all’istruzione (scuola, nidi d’infanzia) e alla formazione, anche professionale, ai tirocini formativi, alle misure di welfare locale (comunale e regionale), all’iscrizione ai Centri per l’impiego, all’apertura di conti correnti presso le banche o le Poste italiane, etc.

Per quanto riguarda l’accesso ai corsi di formazione, è utile precisare che l’abrogazione disposta dal dl 113/2018 dell’art. 22, comma 3, d.lgs. 142/2015 (che stabiliva che «I richiedenti, che usufruiscono delle misure di accoglienza erogate ai sensi dell’articolo 14, possono frequentare corsi di formazione professionale, eventualmente previsti dal programma dell’ente locale dedicato all’accoglienza del richiedente») riguarda i corsi predisposti nell’ambito del programma di accoglienza (Sprar o Cas) ma non certamente quelli offerti sul territorio comunale indistintamente a tutti. Certo, si porrà il problema del costo per garantire la partecipazione a detti corsi, tenuto conto che i nuovi capitolati d’appalto per la gestione delle strutture di accoglienza non prevedono obbligatoriamente l’erogazione di servizi di tal genere e in tal senso avranno un ruolo decisivo quegli enti locali che introdurranno nel bilancio comunale o regionale voci di spesa destinate anche ai richiedenti asilo, per rendere effettiva l’accoglienza e gestire razionalmente il fenomeno.

Nello specifico, invece, dell’iscrizione ai centri per l’impiego, la disposizione di cui all’art. 5, comma 3, d.lgs. 142/2015 va coordinata con quanto previsto dall’art. 22 del medesimo d.lgs, secondo cui, trascorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, il/la richiedente asilo ha diritto di svolgere l’attività lavorativa [9]. Diritto che comprende necessariamente anche l’iscrizione al centro per l’impiego, propedeutico alla ricerca di opportunità lavorative.

Del resto, l’art. 11, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 150/2015, nel riorganizzare il Servizio regionale per il lavoro (che comprende anche i centri per l’impiego), stabilisce il principio della «c) disponibilità di servizi e misure di politica attiva del lavoro a tutti i residenti sul territorio italiano, a prescindere dalla regione o provincia autonoma di residenza». Se si prescinde dalla regione o provincia autonoma di residenza, è evidente che con la locuzione «a tutti i residenti sul territorio italiano» debba intendersi non la residenza anagrafica ma quella civilistica (art. 43 cc).

In questi termini si è espressa anche la circolare Anpal del 23 maggio 2018, pur precedente l’entrata in vigore del dl 113/2018 [10].

Pertanto, l’iscrizione ai centri per l’impiego dovrà essere consentita anche in assenza di iscrizione anagrafica.

Per quanto riguarda l’accesso ai servizi erogati da soggetti privati (banche, poste, assicurazioni, agenzie immobiliari, etc.), va precisato che nessuna norma prevede che venga esibito il certificato di residenza, ma solo un documento di riconoscimento, che nel caso dei richiedenti asilo è il permesso di soggiorno per richiesta asilo. L’art. 4, comma 1, d.lgs. 142/2015, infatti, stabilisce che «»[…] Il permesso di soggiorno costituisce documento di riconoscimento ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445» [11].

Peraltro, l’art. 126-noviesdecies d.lgs 385/93 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) stabilisce espressamente che, per l’apertura di un conto corrente (conto di base):

«Tutti i consumatori soggiornanti legalmente nell’Unione europea, senza discriminazioni e a prescindere dal luogo di residenza, hanno diritto all’apertura di un conto di base nei casi e secondo le modalità previste dalla presente sezione.

3. Ai fini della presente sezione, per consumatore soggiornante legalmente nell’Unione europea si intende chiunque abbia il diritto di soggiornare in uno Stato membro dell’Unione europea in virtù del diritto dell’Unione o del diritto italiano, compresi i consumatori senza fissa dimora e i richiedenti asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, del relativo protocollo del 31 gennaio 1967 nonché ai sensi degli altri trattati internazionali in materia».

È, pertanto, chiaro che anche per l’apertura di un conto corrente non è necessario avere la residenza o la carta di identità ma è sufficiente il permesso di soggiorno, anche per richiesta asilo.

Diritto che va rigorosamente fatto rispettare, tenuto anche conto che dal 1° luglio 2018 il pagamento degli stipendi non può essere fatto in contanti, rendendo necessaria l’attivazione di un conto corrente (art. 1, comma 910, legge 205/2017).

Un’ultima precisazione va fatta con riguardo all’iscrizione al Servizio sanitario nazionale, tenuto conto che qualche organo di stampa riporta preoccupazioni di amministratori pubblici che temono l’impedimento per i richiedenti asilo in difetto di residenza anagrafica.

Va, infatti, evidenziato che l’iscrizione al Ssn è espressamente prevista anche per i richiedenti asilo dall’art. 34 TU immigrazione d.lgs 286/98, il cui comma 1 stabilisce che:

«Hanno l’obbligo di iscrizione al servizio sanitario nazionale e hanno parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani per quanto attiene all’obbligo contributivo, all’assistenza erogata in Italia dal servizio sanitario nazionale e alla sua validità temporale:

a) gli stranieri regolarmente soggiornanti che abbiano in corso regolari attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo o siano iscritti nelle liste di collocamento;

b) gli stranieri regolarmente soggiornanti o che abbiano chiesto il rinnovo del titolo di soggiorno, per lavoro subordinato, per lavoro autonomo, per motivi familiari, per asilo, per protezione sussidiaria, per casi speciali, per protezione speciale, per cure mediche ai sensi dell’articolo 19, comma 2, lettera d-bis), per richiesta di asilo, per attesa adozione, per affidamento, per acquisto della cittadinanza; (361)

b-bis) i minori stranieri non accompagnati, anche nelle more del rilascio del permesso di soggiorno, a seguito delle segnalazioni di legge dopo il loro ritrovamento nel territorio nazionale».

Pertanto, l’accesso al Ssn dovrà essere garantito anche ai richiedenti asilo, pur in difetto di residenza anagrafica ma sulla base del solo domicilio eletto in sede di presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale.

***

Queste considerazioni consentono agli amministratori locali di richiedere il rispetto rigoroso della legge, sia per quanto riguarda l’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo (richiedendo un documento di riconoscimento diverso dal permesso di soggiorno, ovverosia il Modello C3 di identificazione del richiedente stesso da parte dell’autorità di pubblica sicurezza), sia garantendo che, anche se privi di iscrizione anagrafica, ai richiedenti asilo sia riconosciuto il diritto di accesso ai servizi erogati sul territorio, in applicazione rigorosa della legge vigente.

[1] Entrato in vigore il 5 ottobre 2018 e convertito con modificazioni in legge n. 132/2018.
[2] Cfr. il documento Asgi, Manifeste illegittimità costituzionali delle nuove norme concernenti permessi di soggiorno per esigenze umanitarie, protezione internazionale, immigrazione e cittadinanza previste dal decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/10/ASGI_DL_113_15102018_manifestioni_illegittimita_costituzione.pdf 

[3] Direttiva del sindaco di Palermo del 21 dicembre 2018, prot. n. 1807620, https://bit.ly/2FduNqe.
[4] Così ad esempio, e senza pretesa di esaustività, contrasterebbe con l’art. 2 del Protocollo n. 4 allegato alla Cedu, ratificato e reso esecutivo in Italia con dPR 14 aprile 1982, n. 217 sulla Libertà di circolazione, che sancisce: «Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di fissarvi liberamente la sua residenza», e con l’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici: «Ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio», adottato dall’Assemblea generale il 16 dicembre 1966, e reso esecutivo in Italia con legge. n. 881 del 25 ottobre 1977.
[5] Quindi, alla presenza fisica in un determinato luogo (elemento importante ma mai risolutivo per stabilire la dimora abituale di un soggetto in un determinato luogo, posto che la verifica dell’elemento oggettivo attraverso il riscontro della sua presenza fisica è un’operazione qualitativa ancor prima che quantitativa), deve affiancarsi un elemento soggettivo dato dall’intenzionalità di risiedere in quel luogo, ove porre il proprio centro delle relazioni familiari e sociali.
[6] Ciò anche in forza di quanto previsto dal comma 2 dello stesso art. 6, che richiede allo straniero l’esibizione del permesso di soggiorno in sede di «rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati».
[7] Servizio centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, Ministero dell’Interno, UNHCR, A.N.U.S.C.A., ASGI, Linee guida sul diritto alla residenza dei richiedenti e beneficiari di protezione internazionale, dicembre 2014, https//www.asgi.it/notizie/linee-guida-sul-diritto-alla-residenza-dei-richiedenti-e-beneficiari-di-protezione-internazionale/
[8] Art. 5, comma 3, d.lgs. 142/2015: «L’accesso ai servizi previsti dal presente decreto e a quelli comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti è assicurato nel luogo di domicilio individuato ai sensi dei commi 1 e 2».
[9] Art. 22, comma 1, d.lgs. 142/2015: «Il permesso di soggiorno per richiesta asilo di cui all’articolo 4 consente di svolgere attività lavorativa, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda, se il procedimento di esame della domanda non è concluso ed il ritardo non può essere attribuito al richiedente».
[10] Anpal, circolare del 23 maggio 2018 n. 6202, https://bit.ly/2FaC5ed.
[11] Art. 1 dPR 445/2000:

«Ai fini del presente testo unico si intende per:

[…] c) DOCUMENTO DI RICONOSCIMENTO ogni documento munito di fotografia del titolare e rilasciato, su supporto cartaceo, magnetico o informatico, da una pubblica amministrazione italiana o di altri Stati, che consenta l’identificazione personale del titolare; […]».


L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica

The post L’iscrizione anagrafica e l’accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo appeared first on Asgi.

Le nuove norme su immigrazione e sicurezza: punire i poveri

Il dl 113/2018 (cd. decreto Salvini), convertito con l. 132/2018, rivela un disegno unificatore, lucido e crudele: colpire gli emarginati, privandoli di dignità e diritti. Gli avvocati, i pm ed i giudici sono chiamati ad una sfida densa di valori costituzionali, con cui affrontare consapevolmente quella “linea di politica criminale, di politica sociale e di politica tout court”che ne costituisce la cifra dominante.

1. Tanto tuonò che piovve. Il decreto legge 4 ottobre 2018 n. 113, in tema di immigrazione e cittadinanza, è stato convertito, con piccole modifiche e integrazioni, nella legge 1 dicembre 2018, n. 132. Il Ministro dell’interno e segretario della Lega Matteo Salvini esulta. Non senza ragione, dal suo punto di vista. La rottura del sistema realizzata con il decreto – pur anticipata da provvedimenti di diversi governi e da tempo nell’aria – è, infatti, di grande portata.

I contenuti sono noti.

Si comincia con l’immigrazione.

Scompare il permesso di soggiorno per motivi umanitari (solo in parte sostituito da permessi parcellizzati per situazioni specifiche e limitate) e, con esso, la protezione che in questi anni ha contribuito in maniera significativa a dare attuazione al diritto di asilo previsto dall’articolo 10, comma 3, Costituzione; viene portato da 90 a 180 giorni il periodo massimo di possibile trattenimento nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR) e viene introdotto il trattenimento per un massimo di 30 giorni in hotspot o in Centri governativi di prima accoglienza dei richiedenti asilo «per la determinazione o la verifica dell’identità e della cittadinanza» (così aumentando a dismisura l’area della detenzione amministrativa, id est del carcere senza reato); viene sostanzialmente smantellato il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati gestito dai Comuni (SPRAR), espressione di un modello di accoglienza inclusivo e diffuso sul territorio da oggi riservato esclusivamente ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati, mentre i richiedenti asilo possono trovare accoglienza solo nei centri governativi di prima accoglienza e nei centri di accoglienza straordinaria (CAS); in caso di diniego dell’asilo è previsto, anche in pendenza di ricorso, l’obbligo di lasciare il territorio dello Stato (salvo gravi motivi di carattere umanitario) per chi è sottoposto a procedimento penale o condannato, anche con sentenza non definitiva, per alcuni reati gravi e di media gravità; viene previsto il rigetto della domanda di asilo per manifesta infondatezza in una pluralità di ipotesi, tra cui quelle, non certo eccezionali per chi fugge da guerre o persecuzioni, di ingresso illegale nel territorio dello Stato e di mancata presentazione tempestiva della domanda; viene affidata ai Ministeri degli esteri, dell’interno e della giustizia la predisposizione e l’aggiornamento di un «elenco dei Paesi d’origine sicuri» per i cui cittadini il diritto di asilo è concedibile solo in presenza di «gravi motivi» di carattere personale; vengono aumentati gli adempimenti a carico delle cooperative sociali che si occupano di migranti (e di esse soltanto) con la previsione dell’obbligo di pubblicare trimestralmente nei propri siti Internet o portali digitali «l’elenco dei soggetti a cui sono versate somme per lo svolgimento di servizi finalizzati ad attività di integrazione, assistenza e protezione sociale».

La manovra legislativa modifica, poi, la disciplina della cittadinanza, prevedendone la revoca in caso di condanna definitiva per alcuni gravi reati, qualora la cittadinanza italiana sia stata acquisita da persona in precedenza straniera.

Infine, la “sicurezza”. Viene ripristinato in toto (salvo il caso, introdotto in sede di conversione, di ostruzione stradale realizzata con il solo corpo [sic!]) il reato di blocco ferroviario e stradale già previsto dal decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66 e parzialmente depenalizzato nel 1999; vengono aumentate in modo abnorme le pene stabilite nell’art. 633 codice penale per il reato di invasione o occupazione di terreni o edifici (con una forbice da uno a tre anni di reclusione nell’ipotesi base e da due a quattro anni in quella aggravata) e introdotta la possibilità, nell’ipotesi aggravata, di procedere a intercettazione di conversazioni o comunicazioni; viene introdotto il reato di «esercizio molesto dell’accattonaggio», impropriamente definito delitto seppur collocato tra le contravvenzioni (articolo 669-bis codice penale), punito con la pena congiunta dell’arresto da tre a sei mesi e con l’ammenda; viene modificato l’articolo 7, comma 15-bis, del codice della strada con la previsione che l’esercizio abusivo dell’attività di « parcheggiatore o guardamacchine» si trasforma da illecito amministrativo in contravvenzione punita con la pena congiunta dell’arresto (da sei mesi a un anno) e dell’ammenda nel caso in cui «nell’attività [siano] impiegati minori, o se il soggetto [sia] già stato sanzionato per la medesima violazione con provvedimento definitivo»; l’ambito di applicazione del divieto di accesso in specifiche aree urbane (cosiddetto Daspo urbano), introdotto con il decreto legge 20 febbraio 2017, n. 14, viene esteso ai presidi sanitari, alle aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati e pubblici spettacoli e ai locali pubblici e pubblici esercizi che vengono così ad aggiungersi a porti, aeroporti, stazioni ferroviarie, scuole, università, musei, aree archeologiche o comunque interessate da consistenti flussi turistici o destinate al verde pubblico (con previsione di contestuali sanzioni amministrative pecuniarie e di sanzioni penali detentive in caso di violazione del divieto).

2. Il quadro, ancorché sintetico, è eloquente. Ancor più lo diventa se si analizzano le linee di tendenza (tecniche e politiche) che caratterizzano il nuovo complesso normativo.

Primo. C’è, anzitutto, un’operazione culturale spregiudicata e violenta

Le leggi, in particolare quelle penali e quelle che prevedono obblighi o divieti, hanno – come noto – una rilevante funzione simbolica. Definendo i reati e gli illeciti dicono che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è socialmente accettabile e che cosa, al contrario, deve essere oggetto di riprovazione. In questo modo esse contribuiscono potentemente alla costruzione del pensiero dominante. Ebbene, la trattazione congiunta di immigrazione e sicurezza (non necessitata da ragioni tecniche o pratiche) ha l’evidente obiettivo di indurre (o consolidare) la convinzione che i responsabili dell’insicurezza diffusa sono i migranti e di contribuire alla realizzazione di quello che è stato felicemente definito un nazionalismo autoritario [1]. L’operazione è perseguita con metodo anche nei dettagli. Si pensi all’imposizione di obblighi paralizzanti alle cooperative che operano con i migranti e non alle altre realtà che ugualmente ricevono denaro dallo Stato per prestazioni assistenziali. Che scopo può avere una siffatta imposizione discriminatoria se non quello di fare terra bruciata intorno ai migranti, estendendo la riprovazione sociale a coloro che li aiutano, additati come potenziali speculatori che sperperano il denaro pubblico o addirittura se ne impossessano? L’uso di leggi manifesto e di “pacchetti sicurezza” culturalmente orientati non è certo una novità, ma il consolidamento della tendenza costituisce un ulteriore scivolamento verso una cultura razzista e xenofoba.

 

Secondo. Il carattere più evidente del nuovo corpus normativo è l’incremento massiccio dell’uso della penalità e della contenzione come strumenti di governo della società.

Le avvisaglie erano state molte e univoche (con il susseguirsi, ad ogni reale o presunta emergenza, di ri-penalizzazioni, nuovi reati e aumenti di pena) e tuttavia nei decenni scorsi il nostro Paese aveva conosciuto, sul punto, oscillazioni periodiche tra il versante dell’inclusione (tentata) e quello dell’esclusione (praticata in modo crescente). Oggi il pendolo si è fermato e le oscillazioni hanno lasciato il campo a una direzione univoca. Non altrimenti può essere letta la pioggia di aumenti di pena abnormi (si pensi alle pene minime di sei mesi di arresto per l’esercizio reiterato dell’attività di posteggiatore abusivo e di un anno di reclusione per le ipotesi base di occupazione di edifici e di blocco stradale), di ripristino di reati depenalizzati (e talora anche lambiti da dichiarazioni di illegittimità costituzionale), di espansione e di nuove ipotesi di detenzione amministrativa (dopo la contrazione imposta, nel 2014, dalla necessità di coerenza con la normativa europea). Il tutto in un contesto nel quale il carcere torna a superare il tetto, altamente simbolico, delle 60.000 presenze quotidiane (60.002 il 30 novembre 2018) e il Ministro guardasigilli annuncia una task force per realizzare la trasformazione in carceri di caserme dismesse, ritenute particolarmente adatte allo scopo (sic!). Il salto di qualità è di per sé evidente ma è ulteriormente illuminato da alcuni specifici rilievi. Anzitutto l’incremento della penalità ripercorre strade già seguite in passato e poi abbandonate, quantomeno, per la loro inutilità: a dimostrazione del carattere fortemente ideologico dell’operazione in atto e della sua finalizzazione a riscrivere il rapporto tra diritti e autorità più che a dare risposta a esigenze reale. In secondo luogo tale incremento non è generalizzato ma mirato ad alcune classi o ceti sociali: i migranti, ovviamente, ma, poi, i poveri (a cui sono dirette le nuove norme in tema di accattonaggio, di esercizio abusivo dell’attività di posteggiatore, di occupazione di stabili ad uso abitativo e di Daspo urbani) e le parti deboli del conflitto sociale, destinatarie delle norme incriminatrici del blocco stradale (coessenziale a qualunque manifestazione di piazza) e dell’occupazione di edifici di carattere politico (costituente una delle condotte tipiche delle aree sociali antagoniste).

 

Terzo. Nel processo di penalizzazione crescente c’è un fatto nuovo: l’affinamento di strumenti e meccanismi giuridici diretti a spostare l’accento normativo dal fatto alle caratteristiche soggettive del suo autore.

Non solo, dunque, fattispecie disegnate ad hocsul prototipo del ribelle (come il blocco stradale o l’occupazione di edifici nella variante politica) o del marginale (come l’accattonaggio molesto o la pratica dell’attività di posteggiatore senza autorizzazione). Ma anche l’uso di tecniche normative inedite nel nostro sistema come la trasformazione dell’illecito da amministrativo in penale in conseguenza della reiterazione del fatto (nel caso, già ricordato, dell’attività di posteggiatore abusivo) o un surplus di pena per violazioni specifiche (nel caso della violazione del Daspo urbano, punita con l’arresto da sei mesi a un anno e, dunque, in modo assai più grave della ordinaria inosservanza di provvedimenti dell’autorità, punita dall’art. 650 codice penale con l’arresto fino a tre mesi o con la semplice ammenda). Tecniche coerenti con il passaggio dal diritto penale del fatto alla criminalizzazione del tipo d’autore importate dagli Stati Uniti, dove sono utilizzate a man bassa [2], e praticate oggi anche in diversi Paesi europei, a cominciare dall’Ungheria dove, in forza di una legge dell’ottobre 2018, il divieto per gli homeless di dormire nelle stazioni, sulle panchine, negli androni dei palazzi e simili è l’anticamera del carcere (da uno a 60 giorni) previsto per chi venga sorpreso per tre volte nell’arco di sei mesi a dormire in strada [3].

 

Quarto. Si realizza infine, con questa manovra, un’ulteriore tappa nel processo di amministrativizzazione dei diritti e delle libertà delle persone, realizzata attraverso una crescente delegificazione e il conferimento di nuovi poteri a istituzioni e organi esecutivi.

Le tessere dell’operazione sono molte e concorrenti: la dilatazione, in qualità e in quantità, della detenzione amministrativa, vero mostro giuridico sia per la labilità dei relativi presupposti che per la mancanza di un reale controllo giudiziario di merito; l’attribuzione all’esecutivo delle valutazioni sul rispetto dei diritti umani nei Paesi di provenienza dei migranti, sottratte così alle competenti Commissioni e alla magistratura; il potenziamento del ruolo dei sindaci nelle politiche di ordine pubblico con estensione abnorme dei poteri di ordinanza loro attribuiti (veicolata da una artificiosa contrapposizione tra salvaguardia di un non meglio precisato “decoro urbano” e tutela dei diritti, dimentica del rango costituzionale di questi ultimi); la trasformazione del ruolo della polizia municipale, nei comuni di popolazione superiore a centomila abitanti, con previsione della possibilità per la stessa di accedere, a fini di identificazione e controllo delle persone, al Centro elaborazione dati del Ministero dell’interno e con dotazione, in via sperimentale (ed estesa anche ai comuni capoluoghi di provincia), di armi comuni a impulso elettrico.

 

3. L’unitarietà e l’interna coerenza del decreto e del complessivo intervento legislativo rendono evidente che sarebbe riduttivo e sbagliato considerarli come una semplice esibizione muscolare di un leader populista (come oggi si usa dire) alla ricerca di consenso attraverso lo sfruttamento dell’insicurezza diffusa. C’è senza dubbio questa componente ma, insieme, si staglia una linea di politica criminale, di politica sociale e di politica tout court che va ben oltre il suo attuale sbracato interprete e che ha ascendenze diverse.

Fino a ieri, nel nostro Paese, le categorie del diritto penale del nemico e dello Stato penale (surrogato dello Stato sociale in liquidazione) sono state oggetto di analisi di (pochi) studiosi e osservatori che ne hanno denunciato l’affacciarsi e i connessi pericoli, in atto e all’ orizzonte. Oggi siamo passati a una realtà palpabile che ha messo radici. Il filo rosso (o meglio, nero) della manovra normativa è, infatti, l’individuazione sempre più esplicita della categoria dei nemici della società, da estendere nel numero (il Ministro dell’interno ha già anticipato l’intenzione di includervi i consumatori di stupefacenti) e da colpire nei diritti (fino a privarli, quando possibile, finanche della cittadinanza, e dunque dell’identità).

Le tecniche sono quelle già descritte: respingere chi viene da luoghi lontani, criminalizzare chi vive (o pensa) in modo diverso, restringere gli spazi dell’accoglienza, segregare in carcere o in strutture ad esso affini.

Si tratta – va ulteriormente sottolineato – di un disegno unitario: non di misure autonome, seppur parallele, ma di un intervento organico e a piedi giunti elevato a sistema di governo della società. Un intervento i cui destinatari sono i poveri e il mondo che li circonda (o, semplicemente, non è ad essi ostile).

Una legge contro i poveri, migranti o autoctoni, dunque. Per sottolinearne il segno Tommaso Montanari ha richiamato un passaggio dello storico americano Christopher Browning il quale, in Uomini comuni. Polizia tedesca e soluzione finale in Polonia, racconta che, di fronte alla necessità di uccidere un certo numero di persone in una rappresaglia (nel settembre 1942), il sindaco polacco e gli ufficiali tedeschi si accordarono per «colpire due sole categorie: quella degli stranieri e dei residenti temporanei e quella dei cittadini “privi di sufficienti mezzi di sussistenza”». 78 polacchi furono condotti fuori dal Paese, e fucilati: un poliziotto tedesco ricorda che furono uccisi solo «i più poveri tra i poveri» [4].

La tipologia dei poveri del nuovo millennio è sterminata: irregolari, clandestini, tossicodipendenti, matti, alcolizzati, deformi, barboni, mendicanti, prostitute di strada, viados, lavavetri, posteggiatori abusivi, ambulanti senza licenza, inventori di mestieri, benzinai improvvisati della domenica, venditori di fiori o fazzoletti, ombrellai dei giorni di pioggia, zingari, giocolieri di strada, questuanti, oziosi, vagabondi, punkabbestia coi loro cani, vecchi che frugano nelle pattumiere e via elencando potenzialmente all’infinito. Sono i resti, gli scarti da cui ‒ in forza di un pensiero che ha ridisegnato i sistemi istituzionali, i rapporti sociali, il concetto stesso di cittadinanza e di democrazia ‒ la società deve difendersi con ogni mezzo. In forza del postulato secondo cui la diversità di condizioni di vita delle persone è un dato inevitabile (o addirittura positivo) e che la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passa necessariamente attraverso l’espulsione da quei diritti degli esclusi, cioè dei “non meritevoli”, degli sconfitti, dei marginali, appunto.

Non è la prima volta che ciò accade.

Il Medioevo ci tramanda elenchi minuziosi, e singolarmente simili a quelli attuali, di vagabondi, malviventi e peccatori da sorvegliare e punire (per dirla con Foucault): «venditori ambulanti e girovaghi, monaci questuanti, chierici senza patria, indovini e chiromanti, negromanti ed eretici, settari e predicatori d’ogni ordine e disordine, medicastri e guaritori, istrioni, bari e giocolieri […]; poi la grande caterva dei pellegrini autentici e no, dei visionari, dei giudei erranti e maledetti […], dei mendicanti veri e dei mendicanti falsi, delle congreghe di ciechi, degli storpi, degli attratti, dei lebbrosi, dei mercenari e dei soldati che andavano alla guerra o che dalla guerra ritornavano (o dicevano di ritornare) […]; uomini dediti alla rapina e al furto, bande di soldati sbandati che vivevano alle spalle della gente dei campi […]; e infine, a partire dai primi decenni del Quattrocento, gli zingari» [5]. E un elenco assai simile venne predisposto nel 1852 da Karl Marx per descrivere il sottoproletariato oggetto, all’epoca, di criminalizzazione e segregazione: «Vagabondi, soldati destituiti, detenuti liberati, forzati evasi, truffatori, saltimbanchi, lazzaroni, borsaioli, prestigiatori, facchini, ruffiani, cantastorie, cenciaioli, arrotini, calderai ambulanti, accattoni, insomma la massa indecisa, errante e fluttuante che i francesi chiamano la Bohème» [6].

Queste classificazioni hanno dato la stura a interventi repressivi tanto crudeli e sanguinosi quanto inutili ai fini dichiarati di rassicurazione sociale. Basterebbe ripercorrere la stagione del XV secolo, quando la grande cacciata dei contadini dalle terre a seguito della crisi del sistema feudale accrebbe a dismisura miseria e vagabondaggio, e poi quelle del Cinquecento (secolo in cui dilagarono bandi, leggi e ordinanze dirette a colpire mendicanti e vagabondi con tanto di guardie ad hoc, a difesa delle città e finanche delle chiese) e del Seicento, il secolo della “grande reclusione” caratterizzato dal fiorire di case di correzione, di ospedali, di depositi di mendicità, di prigioni (nate, nella accezione moderna, proprio allora) e via di seguito, in un mix di contenimento e di educazione forzata al nascente lavoro manifatturiero e industriale. Fino ad arrivare alle soglie della rivoluzione borghese quando in Francia l’essere sorpresi a mendicare era fonte di sanzioni assai gravi (dapprima l’internamento per almeno due mesi nell’ospedale generale; poi, la seconda volta, una reclusione crescente e la marchiatura; infine, in caso di ulteriore recidiva, anni di lavoro forzato sulle galere per gli uomini e di segregazione nell’ospedale generale per le donne). Internamento e sanzioni non riuscirono – né era quello il loro scopo – ad abolire la povertà, o a renderla invisibile. Ma ebbero l’effetto, destinato a durare nei secoli, di etichettare i poveri come «classe pericolosa».

Ogni automatismo o paragone tra le situazioni descritte e l’attualità sarebbe improprio e forzato. Non solo la storia non si ripete mai nello stesso modo, ma i contesti sono incomparabili.

Epperò le idee, le tendenze, i pregiudizi ritornano. In Italia sono stati accantonati per oltre mezzo secolo grazie alla Carta del 1948 che, tentando l’assalto al cielo, ha proclamato l’eguaglianza delle donne e degli uomini («senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali») e dichiarato guerra alla povertà. Oggi il tradimento di quella promessa, che pure è ancora la legge fondamentale, ha aperto la strada alla guerra ai poveri (anziché alla povertà) e alla sostituzione dello Stato sociale con lo Stato penale.

4. Si colloca su questo crinale il pacchetto sicurezza targato Salvini. Aprendo, ovviamente, una contraddizione e un conflitto, per ora latente ma suscettibile di sviluppi diversi e imprevedibili.

Anche qui c’è, alle nostre spalle, una lunga storia. Un cenno per tutti. Alla fine del XVII secolo la caccia ai poveri era, in Europa, la regola, tanto che «in Danimarca è stato moltiplicato il numero degli agenti di polizia per assicurare l’arresto dei mendicanti. Nel Mecklemburg-Schverin, una legge ha istituito a questo scopo un corpo di ussari. Nella maggior parte degli stati tedeschi, una forma di gendarmeria a piedi e a cavallo è abitualmente occupata nella caccia ai mendicanti» [7]. Ciò accadde del resto, seppur in epoca più tarda, anche nel nostro Paese dove il Corpo dei carabinieri reali piemontesi venne istituito, nel 1815 e dunque ancora in epoca preunitaria, proprio per pattugliare le campagne e trattenere i vagabondi e altre persone sospette. Quel che è meno noto è la diffusa opposizione sociale che ne seguì: «Invano le guardie, i portieri, i cacciatori di vagabondi, i prevosti, simboli dell’ordine borghese, tentano di incarcerali. Tutti coloro che si riconoscono nell’antico sistema di pensiero […] – gente semplice, lacché, servitori, bambini, suore, osti o prostitute – li proteggono, li strappano alle grinfie dei caccia-vagabondi, li nascondono nelle loro case per restituirli in seguito alla libertà» [8].

Singolarmente affine – in quella storia delle idee e delle pratiche a cui si è fatto riferimento – è ciò che sta accadendo in Italia all’indomani dell’approvazione della legge n. 132, riassunto in un appello di questi giorni di padre Alex Zanotelli: «Ci appelliamo alla Conferenza episcopale italiana perché abbia il coraggio di bollare questo decreto e la politica razzista di questo governo come antitetici al Vangelo; agli istituti missionari, perché facciano udire con forza la loro voce, mettendo a disposizione le loro case per “clandestini” come tante famiglie in Italia stanno facendo; ai parroci, perché abbiano il coraggio di offrire l’asilo nelle chiese ai profughi destinati alla deportazione, attuando il Sanctuary Movement, praticato negli USA e in Germania; ai responsabili degli SPRAR, CAS e altro, perché disobbediscano, trattenendo nelle strutture i migranti, soprattutto donne con bambini; ai medici, perché continuino a offrire gratuitamente servizi sanitari ai clandestini; alla cittadinanza attiva, perché in un momento così difficile e buio, si opponga con coraggio a questa deriva anti-democratica, xenofoba e razzista anche con la “disobbedienza civile”».

Questo si agita nella società. Questo è il conflitto in cui siamo immersi.

C’è un’appendice. Ogni conflitto chiama in causa, inevitabilmente, i giudici e la giurisdizione. Lo ha scritto da ultimo, con il consueto rigore, Luigi Ferrajoli, analizzando la “contestazione dei ruoli” emersa negli anni Sessanta sotto la spinta, soprattutto, di Magistratura democratica: «Si capì allora che le cosiddette professioni corrispondono sempre a ruoli di potere: il potere giudiziario nei confronti dei cittadini sottoposti a giudizio, il potere docente e accademico nei confronti degli studenti ma anche degli aspiranti docenti, il potere medico nei confronti dei pazienti, il potere poliziesco e in generale quello degli impiegati e dei funzionari di tutte le amministrazioni pubbliche nei confronti dei cittadini. E allora, se di poteri si tratta, il loro esercizio non è mai puramente tecnico, non è mai neutro, ma assume un ruolo diverso, anzi opposto, a seconda che sia informato a criteri autoritari, autoreferenziali, di dominio o di arbitrio, o al contrario alla tutela dei diritti fondamentali delle persone che ne sono i destinatari. Di qui la politicizzazione dei ruoli professionali, la riflessione sul loro rapporto con la società e l’impegno collettivo per la loro rifondazione democratica: per non restare vittime dei conformismi, dei carrierismi e dei corporativismi; per dare senso e valore alle nostre professioni; per rifondarne la legittimazione sulla base del loro ruolo di garanzia dei diritti delle persone» [9]. È così. I giudici (e i magistrati in genere) non sono – che lo vogliano o no, che ne siano o meno consapevoli – fuori dal conflitto.

Nessuno può trincerarsi credibilmente dietro il formalismo giuridico e la neutralità del diritto.

L’interpretazione è una pratica complessa fondata su giudizi di valore, i bilanciamenti di norme e princìpi sono ineludibili, le priorità sono frutto di scelte, le misure cautelari e l’entità delle pene sono ampiamente discrezionali e via seguitando.

Dunque i giudici faranno, in un modo o nell’altro, la loro parte. Come la faranno è difficile dire. Alcune vicende recenti annunciano nubi all’orizzonte ma altre dimostrano capacità di orientamento e rigore costituzionale. Certo è che le conseguenze delle scelte giurisprudenziali produrranno effetto, talvolta senza ulteriore mediazione, sulla vita di migliaia di persone.

 


[1] A. Algostino, Verso un nazionalismo autoritario, 1 dicembre 2018

[2] Cfr. E. Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017

[3] Ungheria. Guai ai senza tetto, 23 ottobre 2018

[4] T. Montanari, Il razzismo di Salvini e le ipocrisie della sinistra, 3 dicembre 2018

[5] P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino, 1973, pp. XXII e XXIII.

[6] K, Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, trad. italiana Editori Riuniti, Roma, 1997, p. 129.

[7] F. Naville, De la charité légale, de ses effets, de ses causes, Dufart, Paris, 1836, tomo II, p. 9, riportato in G. Chamayou, Le cacce all’uomo, Manifestolibri, Roma, 2010, p. 84.

[8] E. Leroy-Ladurie, Les Paysand de Languedoc, Éditions de l’École del hautes études en sciences sociales, Paris, 1966, p. 94, riportato in Chamayou, Le cacce all’uomo, cit., p. 85.

[9] L. Ferrajoli, Magistratura Democratica e la contestazione dei ruoli professionali nel lungo ‘68 italiano, relazione inedita al convegno “Il lungo Sessantotto”, Roma, 18 novembre 2018.


L’articolo è pubblicato nella Rubrica “Diritti senza confini”, nata dalla collaborazione fra le Riviste Questione Giustizia e Diritto Immigrazione e Cittadinanza per rispondere all’esigenza di promuovere, con tempestività e in modo incisivo il dibattito giuridico sulle principali questioni inerenti al diritto degli stranieri. Vai alla Rubrica

 

Foto : Pexel

The post Le nuove norme su immigrazione e sicurezza: punire i poveri appeared first on Asgi.