Animali selvatici danneggiano la tua auto, chi è legittimato passivo

Animali selvatici danneggiano la tua auto, chi è legittimato passivo – – – Corte di Cassazione, Sez. 3^ Civile, sentenza del 22 giugno 2020

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Animali selvatici danneggiano la tua auto, chi è legittimato passivo.

Risarcimento dei danni all’autovettura causati da animali selvatici (branco di cinghiali) – animali selvatici appartenenti alle specie protette e che rientrano, ai sensi della legge n. 157 del 1992, nel patrimonio indisponibile dello Stato – soggetto legittimato passivo

Corte di Cassazione, Sez. 3^ Civile, sentenza n. 12113 del 22 giugno 2020

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Il caso
Tizio agisce in giudizio nei confronti della Regione Abruzzo per ottenere il risarcimento dei danni riportati dalla propria autovettura a seguito della collisione con un piccolo branco di cinghiali. Il Giudice di Pace accoglie la domanda, il Tribunale di L’Aquila conferma.
La Regione Abruzzo con ricorso per cassazione
pone la discussa questione della individuazione del soggetto, pubblico o privato, tenuto a rispondere dei danni causati dagli animali selvatici (in particolare, ma non solo, alla circolazione su strade pubbliche).
Ritiene il Collegio che tale questione sia necessariamente legata al fondamento giuridico della responsabilità stessa per i danni causati da animali appartenenti a specie protette di proprietà pubblica e richieda un esame analitico della relativa problematica.”

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Nella sentenza i giudici del Supremo Collegio ricordano che “I danni causati dagli animali selvatici, in passato, erano considerati sostanzialmente non indennizzabili, in quanto tutta la fauna selvatica era ritenuta res nullius.”
Poi, osservano quanto appresso: “Con la legge 27 dicembre 1977 n. 968 la fauna selvatica (appartenente a determinate specie protette) è stata dichiarata patrimonio indisponibile dello Stato, tutelata nell’interesse della comunità nazionale e le relative funzioni normative e amministrative sono state assegnate alle Regioni, anche in virtù dell’art. 117 Cost..
Successivamente, la legge 11 febbraio 1992 n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) ha specificato che la predetta tutela riguarda –le specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale–, con le eccezioni specificate (talpe, ratti, topi propriamente detti, nutrie, arvicole) ed avviene anche nell’interesse della comunità internazionale, precisando, sul piano delle competenze, che:
le Regioni a statuto ordinario: provvedono –ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica– (art. 1);
–esercitano le funzioni amministrative di programmazione e di coordinamento ai fini della pianificazione faunistico-venatoria–;
–svolgono i compiti di orientamento, di controllo e sostitutivi previsti dalla presente legge e dagli statuti regionali– (art. 9);
–attuano la pianificazione faunistico-venatoria mediante il coordinamento dei piani provinciali– (art. 9);
–nonché con l’esercizio di poteri sostitutivi nel caso di mancato adempimento da parte delle province …– (art. 10);
–… provvedono al controllo delle specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia», controllo che «esercitato selettivamente, viene praticato di norma mediante l’utilizzo di metodi ecologici–(art. 19);
— istituiscono e disciplinano il fondo destinato al «risarcimento dei danni prodotti dalla fauna selvatica e dall’attività venatoria», per «far fronte ai danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta–(art. 26);
–alle Province, invece: –spettano le funzioni amministrative in materia di caccia e di protezione della fauna secondo quanto previsto dalla legge 8 giugno 1990 n. 142, che esercitano nel rispetto della presente legge– (art. 9);
— inoltre, ai sensi dell’art. 19 del decreto legislativo 28 settembre 2000 n. 267 (che ha sostituito la legge n. 142 del 1990), alle Province spettano –le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l’intero territorio provinciale– nei settori della –protezione della flora e della fauna, parchi e riserve naturali», nonché della «caccia e pesca nelle acque interne.
La dottrina (oltre ad alcune remote decisioni, soprattutto di merito) ha in prevalenza ritenuto che il riconoscimento della proprietà pubblica della fauna selvatica, con la funzionalizzazione agli interessi collettivi, nazionali ed internazionali, della sua tutela nonché della sua stessa gestione, comportasse l’applicabilità, anche agli animali selvatici appartenenti alle specie protette, del regime di responsabilità speciale previsto, in generale, dall’art. 2052 c.c., per i danni causati dagli animali in proprietà o in uso di un qualunque soggetto giuridico.
Nella giurisprudenza di questa Corte si è invece consolidato un diverso indirizzo, secondo cui il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita nell’art. 2052 c.c., inapplicabile con riguardo alla selvaggina, il cui stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia da parte della pubblica amministrazione, ma solamente alla stregua dei principi generali della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e perciò richiede l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico “
“Tale indirizzo ha anche superato il vaglio della Corte Costituzionale, la quale – con Ordinanza in data 4 gennaio 2001 n. 4 – ha ritenuto non sussistere una irragionevole disparità di trattamento tra il privato proprietario di un animale domestico o in cattività, che risponde dei danni da questo arrecati secondo il criterio di imputazione di cui all’art. 2052 c.c., e la pubblica amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi gli animali selvatici (ciò sull’assunto per cui, poiché questi ultimi soddisfano il godimento della intera collettività, i danni prodotti dagli stessi costituiscono un evento naturale di cui la comunità intera deve farsi carico secondo il regime ordinario di imputazione della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c.).
“L’indicata ricostruzione del regime di imputazione della responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici ha inizialmente comportato l’individuazione dell’ente pubblico (eventualmente) responsabile per la colposa omessa adozione delle misure necessarie ad impedirli, nella Regione, quale ente titolare della competenza a disciplinare, sul piano normativo e amministrativo, la tutela della fauna e la gestione sociale del territorio; e ciò anche laddove la Regione avesse delegato i suoi compiti alle Province, poiché la delega non fa venir meno la titolarità di tali poteri e deve essere esercitata nell’ambito delle direttive dell’ente delegante”
“Va chiarito il quadro dei successivi orientamenti della giurisprudenza di legittimità in relazione alla cd. legittimazione passiva sul piano sostanziale: la individuazione dell’ente competente cui è ascrivibile la condotta colposa rilevante
A fronte di tale originario orientamento, sono state in seguito operate una serie di specificazioni, pervenendosi in sostanza in qualche modo ad alterare l’esposto criterio di imputazione soggettiva della responsabilità in capo alla Regione.”

Si soffermano sul fatto che il panorama delle principali decisioni relative alle numerose fattispecie di domande di risarcimento di danni causati da animali selvatici appartenenti a specie protette, pervenute all’esame del giudice di legittimità, evidenzia di per sé come l’attuale quadro degli orientamenti della stessa Corte non possa ritenersi univoco.

Tra l’altro, affermano che   “in effetti sono state rilevate da più parti, oltre che contraddizioni tra decisioni aventi ad oggetto analoghe fattispecie, anche una serie di criticità di fondo, emergenti dal suddetto quadro. “
“ Diviene rilevante il tema dell’effettività della tutela dei diritti del danneggiato. In primo luogo è stata ripetutamente segnalata la condizione di oggettiva ed estrema difficoltà pratica in cui, in base agli attuali orientamenti, viene posto il soggetto privato danneggiato dalla condotta di animali selvatici nell’esercitare in giudizio la tutela dei suoi diritti, trovandosi questi costretto, non solo a dover individuare e provare una specifica condotta colposa dell’ente convenuto, causativa del danno, ma anche a districarsi in un ipertrofico e confuso sovrapporsi di competenze statali, regionali, provinciali e di enti vari (enti parchi, enti gestori di strade e oasi protette, aziende faunistico venatorie, ecc.), i cui rapporti interni non sono sempre agevolmente ricostruibili, al fine di individuare l’unico soggetto pubblico effettivamente legittimato passivo, in concreto, in relazione all’azione risarcitoria avanzata (e ciò anche al fine di evitare la responsabilità per le spese processuali in relazione agli altri enti potenzialmente responsabili, eventualmente citati a “scopo cautelativo”), il che finisce in molti casi per risolversi in un sostanziale diniego di effettiva tutela, in evidente tensione con i valori costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost.. “
“ In proposito deve peraltro tenersi conto che l’esclusione dell’illegittimità costituzionale del “diritto vivente” formatosi nella materia (cfr. la già richiamata ordinanza della Corte Cost. n. 4 del 2001) è antecedente all’affermarsi degli orientamenti interpretativi che richiedono, per l’accoglimento della domanda risarcitoria, l’individuazione dell’ente legittimato passivo sul piano sostanziale (recte: l’ente cui è in concreto ascrivibile la specifica condotta colposa causativa del danno) da parte del danneggiato, risalendo al periodo in cui era affermata da questa Corte l’esclusiva legittimazione passiva delle Regioni.
Si rende, pertanto, necessario addivenire ad una uniformità di applicazione del diritto civile nel territorio nazionale. L’affermazione per cui l’ente “legittimato passivo” in relazione all’azione risarcitoria per i danni causati dalla fauna selvatica protetta è esclusivamente quello cui sarebbe spettato in concreto porre in essere la condotta omessa causativa del danno ha, del resto, portato a ricostruzioni non sempre coincidenti delle medesime legislazioni regionali, ed a sostenere talvolta e/o a negare altre volte (anche in relazione alla medesima regione) che avesse rilievo una determinata delega di funzioni amministrative e/o che la stessa potesse dirsi “concretamente attuata”, ovvero che una determinata condotta omessa spettasse ad un ente o ad un altro, e/o fosse o meno esigibile dall’uno o dall’altro. Ciò senza contare che talvolta la stessa responsabilità delle Regioni e delle Province è stata considerata concorrente ed altre volte esclusiva. Inoltre, nella sostanza, tende ad affermarsi in concreto un regime della responsabilità civile per i danni causati dagli animali selvatici differenziato, regione per regione, regime di dubbia compatibilità sistematica con il principio, anch’esso di rilievo costituzionale, per cui la normativa regionale non può incidere sui rapporti di diritto privato.
Anche sotto il profilo della cd. analisi economica del diritto sono state sollevate perplessità sulla razionalità di un regime di imputazione della responsabilità che nella sostanza lascia nella maggioranza dei casi il danno causato dalla fauna selvatica, bene tutelato nell’interesse della collettività, in capo al singolo che lo ha subito, invece di “collettivizzarlo”.
È poi appena il caso di osservare che le palesi difficoltà di applicazione pratica del descritto regime di imputazione della responsabilità hanno causato una notevole incertezza dell’esito delle decisioni giudiziarie, che ha presumibilmente contribuito ad alimentare il contenzioso in modo esponenziale. “

Alla fine gli Ermellini concludono così:
“Va, infine, sottolineato che, (…), la complessa ricostruzione sistematica operata dalla giurisprudenza di legittimità in ordine al fondamento della responsabilità ed all’individuazione dell’ente pubblico responsabile, ha spesso finito per determinare in concreto un paradosso: quello della implicita contraddizione delle stesse premesse teoriche dell’indirizzo fatto proprio dall’organo decidente.

(…) la decisione impugnata va confermata, con le precisazioni …, dovendosi dare continuità al principio recentemente espresso da questa Corte secondo cui:

“ai fini del risarcimento dei danni cagionati dagli animali selvatici appartenenti alle specie protette e che rientrano, ai sensi della legge n. 157 del 1992, nel patrimonio indisponibile dello Stato, va applicato il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. e il soggetto pubblico responsabile va individuato nella Regione, in quanto ente al quale spetta in materia la funzione normativa, nonché le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte – per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari – da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi per i casi di eventuali omissioni (e che dunque rappresenta l’ente che –si serve–, in senso pubblicistico, del patrimonio faunistico protetto), al fine di perseguire l’utilità collettiva di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; la Regione potrà eventualmente rivalersi (anche chiamandoli in causa nel giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli altri enti ai quali sarebbe spettato di porre in essere in concreto le misure che avrebbero dovuto impedire il danno, in quanto a tanto delegati, ovvero trattandosi di competenze di loro diretta titolarità—“

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Integrazione del contraddittorio, morte o perdita della capacità

Integrazione del contraddittorio, morte o perdita della capacità – – – – Cassazione Unite Civili, sentenza del 24 maggio 2019

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Integrazione del contraddittorio

Integrazione del contraddittorio – conoscenza della morte o della perdita di capacità della parte destinataria della notifica dell’atto di integrazione – interruzione automatica dei termini per la notifica – istanza di rimessione in termini al giudice ad quem, quando?

Cassazione Unite Civili, sentenza n. 14266 del 24 maggio 2019

 

Le SS.UU.  dopo un approfondito esame della giurisprudenza e della sua evoluzione (con una sentenza di 38 pagg.), toccando interessanti  questioni relative all’argomento (anche quello dell’ultrattività del mandato alla lite) hanno enunciato il seguente principio di diritto:

«Nel caso in cui, in sede di notificazione dell’atto di integrazione del contraddittorio nei confronti del contumace, la parte venga a conoscenza della sua morte o della sua perdita della capacità, il termine assegnatogli dal giudice ai sensi dell’art. 331 cod.proc.civ. è automaticamente interrotto e, in applicazione analogica dell’art. 328 del cod.proc.civ., comincia a decorrere un nuovo termine, di durata pari a quella iniziale, indipendentemente dal momento in cui l’evento interruttivo si è verificato. E’ onere della parte notificante riattivare con immediatezza il processo notificatorio, senza necessità di apposita istanza al giudice ad quem. Solo nel caso in cui, per ragioni eccezionali, di cui la stessa parte deve fornire la prova, tale termine risulti insufficiente ad individuare le persone legittimate a proseguire il giudizio, è consentito chiedere al giudice la rimessione in termini ai sensi dell’art. 153, secondo comma cod.proc.civ.».

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Viaggio aereo: acquisto online, volo con vettore diverso, danni

Giudice di Pace di Napoli, Sez. VII Civile, sentenza del 19 maggio 2020 – – – Viaggio aereo: acquisto online –partenza con vettore diverso – meno confort a bordo – inadempimento contrattuale parziale -risarcimento danni – competenza territoriale – foro del consumatore

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Viaggio aereo
Acquisto online –partenza con vettore diverso – meno confort a bordo – risarcimento danni – competenza territoriale – foro del consumatore

Giudice di Pace di Napoli, Sez. VII Civile, Avv. Nicola Manganelli
Sentenza del 19 maggio 2020

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Competenza territoriale
“Il foro competente per il risarcimento è quello del consumatore. L’acquisto on line del biglietto aereo rientra nell’ambito dei contratti a distanza. Il Codice del consumo… stabilisce quale foro competente inderogabile il luogo di residenza o domicilio eletto del consumatore”

Viaggio con vettore diverso – minori livelli di confort a bordo – risarcimento danni
“Qualora il trasporto sia effettuato da un vettore diverso da quello indicato sul biglietto, il passeggero deve essere adeguatamente informato della circostanza prima dell’emissione del biglietto…” La violazione di tale dovere costituisce parziale/inesatto inadempimento contrattuale…”
“Il disagio arrecato al passeggero per aver utilizzato un vettore evidentemente più economico comporta il riconoscimento di un risarcimento…”

Leggi sentenza
Giudice di Pace di Napoli 19 maggio 2020. Viaggio aereo – competenza – danni

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Responsabilità del datore di lavoro ai tempi del Covid-19

Responsabilità del datore di lavoro ai tempi del Covid-19 – – –  Datore di lavoro – obbligo di tutelare l’integrità fisica dei dipendenti – misure di informazione, cautele e precauzioni sanitarie necessarie a garantire il diritto alla salute sul luogo di lavoro – obbligo di fornire i lavoratori dei necessari e idonei dispositivi di protezione individuale 

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RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO
AI TEMPI DEL COVID 19

di
Avv. Angelo Pignatelli

In questa disordinata pletora di messaggi mediatici forieri di confusione ed incertezze applicative, proviamo ad inquadrare giuridicamente gli obblighi a carico del datore di lavoro in tema di misure di prevenzione covid-19 e le eventuali responsabilità allo stesso ascrivibili in caso di mancata osservanza delle disposizioni normative.
Occorre, a tal proposito, confrontarsi con due assetti normativi:
– il primo, di ordine generale, rimanda all’art. 2087 c.c. in forza del quale il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti, adottando tutte le misure di informazione, le cautele e le precauzioni sanitarie necessarie a garantire il diritto alla salute sul luogo di lavoro;
– il secondo, di carattere specifico, in cui rientrano una serie di disposizioni previste dal D.Lgs. n. 81/2008 (T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro) e, in particolare, l’art. 18, che pone a carico del datore di lavoro alcuni obblighi specifici tra cui quello di fornire i lavoratori dei necessari e idonei dispositivi di protezione individuale che rispetto ai canonici caschi e scarponi antifortunistici, ora sono guanti, mascherine, ambiente sanificato, postazioni distanziate, gestione degli spazi comuni, ed altro ancora.
Da segnalare, poi, sono le norme di recente introduzione, ovvero quella di cui all’articolo 42 comma 2 del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 (“Decreto Cura Italia”), che ha previsto la copertura INAIL per gli assicurati che contraggono un’infezione da coronavirus “in occasione di lavoro”, nonché la circolare n. 13 del 3 aprile 2020, con cui l’Inail ha parificato le malattie infettive e parassitarie con i casi di infezione da covid-19.
Ne discendono, sotto il profilo della responsabilità penale, gravi conseguenze a carico del datore di lavoro che non dimostri di aver adottato le misure necessarie e idonee a prevenirne il rischio di contagio da Covid 19 nell’ambiente di lavoro: nello specifico, ove non abbia diligentemente osservato le misure antinfortunistiche da cui possa essere derivata una infezione-malattia del lavoratore, può rispondere del reato di lesioni personali gravi o gravissime ai sensi dell’art. 590 c.p. o addirittura di omicidio colposo ex art. 589 c.p. qualora al contagio sia seguita anche la morte del dipendente, aggravati dalla la violazione delle norme antinfortunistiche.
Le lesioni colpose e l’omicidio colposo, si badi, sono incluse anche nel novero delle figure di reato che possono dare luogo a responsabilità penale-amministrativa dell’ente ex D. L.vo 231/2001 con tutte le conseguenze di legge per l’ente stesso.
Accanto a queste due più gravi ipotesi delittuose, ve ne sono altre di natura contravvenzionale punite con l’ammenda e/o l’arresto che derivano dalla mera inosservanza degli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 81/2008 , a prescindere dal verificarsi o meno di eventuali infortuni-contagi.
A queste si sommano quelle derivanti dall’articolo 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020, che impone alle imprese, le cui attività non sono state sospese per Covid 19, di rispettare << i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid 19 negli ambienti di lavoro. Tra questi rilevano gli obblighi sulle informazioni da fornire ai dipendenti, sulle modalità e gestione degli ingressi e uscite dall’azienda, sull’accesso dei fornitori esterni, pulizia e sanificazione, sulle precauzioni igieniche personali e dispositivi di protezione individuale, sulla gestione degli spazi comuni e organizzazione aziendale, nonché sulla gestione di una persona sintomatica e sulla sorveglianza sanitaria>>.
Appare pleonastico aggiungere che le norme antinfortunistiche, sono dettate a tutela non solo dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che vengono a trovarsi in azienda indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di lavoro.
Risulta, altresì, conseguenziale che ove il datore di lavoro non sia in grado di garantire ai lavoratori un livello di sicurezza adeguato nel sito dove si svolge l’attività d’impresa è tenuto alla chiusura dell’azienda o alla sospensione delle attività non messe in sicurezza.
Fissati gli obblighi normativamente posti a carico del datore di lavoro, risulta però evidente come non sia certamente agevole per il dipendente dimostrare che il contagio da Covid 19 sia avvenuto nell’ambito dell’attività lavorativa, considerato che “il periodo di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici varia fra 2 e 11 giorni, fino ad un massimo di 14 giorni”, senza contare che in alcuni soggetti i sintomi potrebbero addirittura non presentarsi del tutto. Questo ampio lasso temporale, entro il quale il contagio può manifestarsi, lascerebbe più che ragionevoli dubbi sul luogo, modalità e/o occasioni – diverse dal luogo di lavoro – in cui il dipendente potrebbe in astratto, aver contratto il virus. A titolo di esempio, non esaustivo, si pensi a tutti i luoghi che il dipendente avrebbe potuto frequentare nei giorni precedenti la manifestazioni della malattia: farmacia, supermercati, stretti congiunti, ed altri luoghi ancora non sottoposti a chiusura durante il lockdown nazionale.
Tanto pone a carico del dipendente, su cui grava l’onere della prova, di dimostrare che il contagio sia avvenuto solo ed esclusivamente sul luogo del lavoro: un’alea davvero intrisa di insormontabili difficoltà processuali e probatorie!
Ad oggi, una recente applicazione giurisprudenziale si rinviene nella decisione della Cour d’Appel de Versailles per la nota sospensione inflitta al colosso commerciale AMAZON.
Nello specifico, la Corte accertava che il datore di lavoro non aveva valutato tutti i rischi psico-sociali connessi alla pandemia, né aveva riorganizzato le modalità di lavoro con delle misure appropriate al fine di prevenire il contagio, e per l’effetto statuiva che la valutazione del rischio, adattata al contesto di una pandemia, avrebbe dovuto essere effettuata di concerto con i dipendenti, in particolare i membri di ogni rappresentanza sindacale presente negli stabilimenti, previa consultazione con le organizzazioni sindacali centrali (Cour d’appel de Versailles, 24-avril-2020).
Pertanto, prima di iniziare le attività produttive, è buona norma per il datore di lavoro procedere ad aggiornare – anche in assenza di un obbligo – il documento di valutazione dei rischi al cospetto di un rischio nuovo e sconosciuto qual è il Covid 19 – rispetto a quelli originariamente già previsti e contenuti nel DVR.
In questo modo, sarà più agevole per l’imprenditore dimostrare di avere adottato ogni cautela necessaria per impedire il verificarsi del danno-contagio ai danni del dipendente e/o di terzi che dovessero avere contatti con l’ambito lavorativo.

Maggio 2020

Avv. Angelo Pignatelli

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Responsabilità del datore di lavoro ai tempi del Covid-19

Responsabilità del datore di lavoro ai tempi del Covid-19 – – –  Datore di lavoro – obbligo di tutelare l’integrità fisica dei dipendenti – misure di informazione, cautele e precauzioni sanitarie necessarie a garantire il diritto alla salute sul luogo di lavoro – obbligo di fornire i lavoratori dei necessari e idonei dispositivi di protezione individuale 

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RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO
AI TEMPI DEL COVID 19

di
Avv. Angelo Pignatelli

In questa disordinata pletora di messaggi mediatici forieri di confusione ed incertezze applicative, proviamo ad inquadrare giuridicamente gli obblighi a carico del datore di lavoro in tema di misure di prevenzione covid-19 e le eventuali responsabilità allo stesso ascrivibili in caso di mancata osservanza delle disposizioni normative.
Occorre, a tal proposito, confrontarsi con due assetti normativi:
– il primo, di ordine generale, rimanda all’art. 2087 c.c. in forza del quale il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti, adottando tutte le misure di informazione, le cautele e le precauzioni sanitarie necessarie a garantire il diritto alla salute sul luogo di lavoro;
– il secondo, di carattere specifico, in cui rientrano una serie di disposizioni previste dal D.Lgs. n. 81/2008 (T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro) e, in particolare, l’art. 18, che pone a carico del datore di lavoro alcuni obblighi specifici tra cui quello di fornire i lavoratori dei necessari e idonei dispositivi di protezione individuale che rispetto ai canonici caschi e scarponi antifortunistici, ora sono guanti, mascherine, ambiente sanificato, postazioni distanziate, gestione degli spazi comuni, ed altro ancora.
Da segnalare, poi, sono le norme di recente introduzione, ovvero quella di cui all’articolo 42 comma 2 del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020 (“Decreto Cura Italia”), che ha previsto la copertura INAIL per gli assicurati che contraggono un’infezione da coronavirus “in occasione di lavoro”, nonché la circolare n. 13 del 3 aprile 2020, con cui l’Inail ha parificato le malattie infettive e parassitarie con i casi di infezione da covid-19.
Ne discendono, sotto il profilo della responsabilità penale, gravi conseguenze a carico del datore di lavoro che non dimostri di aver adottato le misure necessarie e idonee a prevenirne il rischio di contagio da Covid 19 nell’ambiente di lavoro: nello specifico, ove non abbia diligentemente osservato le misure antinfortunistiche da cui possa essere derivata una infezione-malattia del lavoratore, può rispondere del reato di lesioni personali gravi o gravissime ai sensi dell’art. 590 c.p. o addirittura di omicidio colposo ex art. 589 c.p. qualora al contagio sia seguita anche la morte del dipendente, aggravati dalla la violazione delle norme antinfortunistiche.
Le lesioni colpose e l’omicidio colposo, si badi, sono incluse anche nel novero delle figure di reato che possono dare luogo a responsabilità penale-amministrativa dell’ente ex D. L.vo 231/2001 con tutte le conseguenze di legge per l’ente stesso.
Accanto a queste due più gravi ipotesi delittuose, ve ne sono altre di natura contravvenzionale punite con l’ammenda e/o l’arresto che derivano dalla mera inosservanza degli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 81/2008 , a prescindere dal verificarsi o meno di eventuali infortuni-contagi.
A queste si sommano quelle derivanti dall’articolo 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020, che impone alle imprese, le cui attività non sono state sospese per Covid 19, di rispettare << i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid 19 negli ambienti di lavoro. Tra questi rilevano gli obblighi sulle informazioni da fornire ai dipendenti, sulle modalità e gestione degli ingressi e uscite dall’azienda, sull’accesso dei fornitori esterni, pulizia e sanificazione, sulle precauzioni igieniche personali e dispositivi di protezione individuale, sulla gestione degli spazi comuni e organizzazione aziendale, nonché sulla gestione di una persona sintomatica e sulla sorveglianza sanitaria>>.
Appare pleonastico aggiungere che le norme antinfortunistiche, sono dettate a tutela non solo dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma anche dei terzi che vengono a trovarsi in azienda indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di lavoro.
Risulta, altresì, conseguenziale che ove il datore di lavoro non sia in grado di garantire ai lavoratori un livello di sicurezza adeguato nel sito dove si svolge l’attività d’impresa è tenuto alla chiusura dell’azienda o alla sospensione delle attività non messe in sicurezza.
Fissati gli obblighi normativamente posti a carico del datore di lavoro, risulta però evidente come non sia certamente agevole per il dipendente dimostrare che il contagio da Covid 19 sia avvenuto nell’ambito dell’attività lavorativa, considerato che “il periodo di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici varia fra 2 e 11 giorni, fino ad un massimo di 14 giorni”, senza contare che in alcuni soggetti i sintomi potrebbero addirittura non presentarsi del tutto. Questo ampio lasso temporale, entro il quale il contagio può manifestarsi, lascerebbe più che ragionevoli dubbi sul luogo, modalità e/o occasioni – diverse dal luogo di lavoro – in cui il dipendente potrebbe in astratto, aver contratto il virus. A titolo di esempio, non esaustivo, si pensi a tutti i luoghi che il dipendente avrebbe potuto frequentare nei giorni precedenti la manifestazioni della malattia: farmacia, supermercati, stretti congiunti, ed altri luoghi ancora non sottoposti a chiusura durante il lockdown nazionale.
Tanto pone a carico del dipendente, su cui grava l’onere della prova, di dimostrare che il contagio sia avvenuto solo ed esclusivamente sul luogo del lavoro: un’alea davvero intrisa di insormontabili difficoltà processuali e probatorie!
Ad oggi, una recente applicazione giurisprudenziale si rinviene nella decisione della Cour d’Appel de Versailles per la nota sospensione inflitta al colosso commerciale AMAZON.
Nello specifico, la Corte accertava che il datore di lavoro non aveva valutato tutti i rischi psico-sociali connessi alla pandemia, né aveva riorganizzato le modalità di lavoro con delle misure appropriate al fine di prevenire il contagio, e per l’effetto statuiva che la valutazione del rischio, adattata al contesto di una pandemia, avrebbe dovuto essere effettuata di concerto con i dipendenti, in particolare i membri di ogni rappresentanza sindacale presente negli stabilimenti, previa consultazione con le organizzazioni sindacali centrali (Cour d’appel de Versailles, 24-avril-2020).
Pertanto, prima di iniziare le attività produttive, è buona norma per il datore di lavoro procedere ad aggiornare – anche in assenza di un obbligo – il documento di valutazione dei rischi al cospetto di un rischio nuovo e sconosciuto qual è il Covid 19 – rispetto a quelli originariamente già previsti e contenuti nel DVR.
In questo modo, sarà più agevole per l’imprenditore dimostrare di avere adottato ogni cautela necessaria per impedire il verificarsi del danno-contagio ai danni del dipendente e/o di terzi che dovessero avere contatti con l’ambito lavorativo.

Maggio 2020

Avv. Angelo Pignatelli

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Covid-19, diritto di visita genitori separati – assegno mantenimento

Famiglia.  Emergenza COVID-19: diritto di visita dei genitori separati – assegno di mantenimento dei figli minori
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FAMIGLIA

EMERGENZA COVID-19
DIRITTO DI VISITA DEI GENITORI SEPARATI
ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEI FIGLI MINORI

di
Avv. Giuseppina Marotta

 

Cosa succede nel caso in cui non viene versato l’assegno di mantenimento dei figli minori a causa della crisi economica?

E’ consentito lo spostamento per esercitare il diritto di visita dei genitori separati nonostante i divieti COVID-19? Cosa succede se il genitore collocatario lo impedisce?

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In questo periodo spesso viene richiesto al proprio avvocato se è passibile di denuncia penale il coniuge che:
a)- arbitrariamente, adducendo la attuale crisi economica, riduca e/o omette di corrispondere l’importo stabilito dal Giudice civile a titolo di assegno di mantenimento dei figli minori;
b)- sempre sua sponte, richiamando l’obbligo di restare a casa, neghi al genitore non collocatario di prendere i figli e/o di esercitare il diritto di visita secondo il calendario statuito dal giudice civile.
Ebbene, pur in assenza di disposizioni normative in tal senso, la risposta non può che essere affermativa, per entrambe le condotte.
Rispetto al primo caso, infatti, che la crisi economica non possa essere una giusta causa per sottrarsi al pagamento dell’assegno di mantenimento totale o parziale, si desume dalle numerose pronunce già emesse dalla S.C. di Cassazione, che ha sempre ribadito i seguenti principi, ormai consolidati, cui i Giudici di merito si sono pedissequamente conformati:
1)- lo stato di bisogno di un figlio minore è implicito nella sua condizione di minore (cfr. per tutte Cass. sez. VI 4/10 – 25/11/2016 n. 5007526/3/2003 n. 26725 ed altre conf.);
2)- non vale ad escludere il reato la circostanza che l’altro coniuge (o un terzo) provveda in via sussidiaria al mantenimento del minore (cfr. cass. Sez. VI 18/3/2015 n. 11804; cass. Sez. VI 21/11/2012 n. 49755; cass. sez. VI 9/1/2004 ed altre conf.)
3)- sussiste il reato anche in caso di inadempimento parziale del genitore obbligato, qualora le somme versate non siano in grado di far fronte alle loro esigenze fondamentali di vita; (cfr. Cass. n. 51027 del 18/12/2013; n. 15898 del 9/4/2014)
4)- l’addotta impossibilità di adempiere va dimostrata, con onere di allegazione a carico dell’obbligato. (cfr. Cass. Sez. V 15/12/2016-25/1/2017 n. 3831), che oltre a provare di non essere stato posto in condizioni di adempiere per cause a lui non imputabili, dovrà anche dimostrare di essersi prodigato per trovare attività di lavoro alternative e/o di non percepire rendite e/o altri benefici, tra cui reddito cittadinanza, indennità e/o benefit riconosciuti con i decreti governativi e regionali, anche in tale periodo critico.
Insomma, sembra evidente che in questo periodo non sarà semplice sottrarsi all’obbligo di corrispondere il mantenimento per i figli minori richiamando genericamente la crisi economica legata al COVID-19, in quanto a prescindere da tutto e da tutti, ai figli va comunque sempre assicurato il loro mantenimento, pena la responsabilità penale per il reato di cui all’art. 570 bis cp.
Per quanto concerne il diritto di visita dei minori, ci si pone di fronte ad una seria problematica avente ad oggetto la necessità di contemperare da un lato la tutela della salute dei figli minori, e dall’altro di garantire il diritto del genitore non collocatario di poter vedere e stare con i figli anche in questo periodo.
Va subito precisato che nonostante tale diritto non sia stato vietato con i decreti ministeriali succedutisi in questo terribile periodo di restrizioni, non sono mancati già pronunce di merito contrastanti.
Ed invero, da un lato il Tribunale di Bari adito da una madre che invocava la sospensione del diritto di visita del padre dimorante in altro e diverso comune, ritiene che vada sacrificato il diritto di far visita ai figli, a fronte di un prevalente interesse a tutelare la salute degli stessi.
Si legge, infatti, nel suo provvedimento che «Il diritto paterno ad incontrare i figli, in presenza della pericolosissima espansione della epidemia in corso, che non accenna ancora a ridurre la sua aggressività tanto da essere stata qualificata dell’Oms pandemia, deve considerarsi quindi recessivo rispetto al primario interesse dei minori a non esporsi al rischio di contagio, nel quale potrebbero poi essere veicolo essi stessi, e ciò sia in ossequio al divieto normativo» di spostamento tra comuni, «sia in forza dell’assoluta preminenza del diritto alla salute dei minori, che può essere compromesso dai contatti con il genitore, il quale sta continuando a lavorare in un call center e ha quindi frequentazioni con un numero indeterminato di persone, così rendendosi egli stessi possibile veicolo di infezione per i piccoli».
Nel contempo il giudice ha inoltre ordinato alla madre «di favorire i contatti audio-video anche plurigiornalieri tra il padre e i suoi figli attraverso l’utilizzo di tutti gli strumenti tecnologici disponibili».

Con questo provvedimento «provvisorio e urgente», il giudice ha così accolto la richiesta della madre di «sospensione degli incontri» per il rischio di contagio da coronavirus legato allo spostamento dei bambini da un comune all’altro.
Dall’altro, invece, il Tribunale di Milano adito per una analoga richiesta, si è pronunciato diversamente, rigettando la richiesta, ritenendo vincolante, ai fini del collocamento e frequentazioni con il padre, l’accordo separativo, aggiungendo che i decreti ministeriali dell’ 8 e del 9 Marzo non vietano l’esercizio di tale diritto.
Nello specifico, infatti, il Tribunale, rileva come il DPCM non precludesse il rientro presso la residenza o domicilio, e che il Governo nelle proprie FAQ aveva chiarito che erano permessi gli spostamenti per permettere a ciascun genitore di attuare il diritto di visita e frequentazione del figlio, rientrante nei “comprovati motivi di assoluta urgenza” che legittima lo spostamento da un Comune all’altro.
Nel successivo decreto dell’11 Marzo si faceva riferimento alla questione e si diceva che “gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore, sono consentiti, secondo le modalità previste dal Giudice”, munendosi di apposita autocertifcazione e documentazione comprovante il calendario delle visite.
Dunque una legittimazione che permane anche con il nuovo DPCM del 22.3.20, che nulla ha modificato al riguardo, e che nel caso in cui venga impedito e/o ostacolato da parte del coniuge collocatario, in assenza di pronunce d’urgenza che sospendano o vietano la visita, risulta punibile ex art. 388 c.p. .
Provvedimenti diametralmente opposti che, purtuttavia, auspicano entrambi un buon senso e responsabilità da parte dei genitori affinchè si adottino comunque tutte le cautele per evitare rischi del contagio.
Si pensi, ad esempio ai genitori esposti al rischio di contagio per ragioni sanitarie o perché conviventi con soggetti che per ragioni lavorative siano più esposti a rischio, oppure perché manifestano sintomi caratterizzanti il COVID-19.
In tali casi, prima ancora delle norme o dei provvedimenti giudiziali, dovrebbe imporsi, nel preminente interesse di tutela della salute dei minori, il senso di responsabilità e la prudenza del genitore “più esposto”.
Per cui, proprio in ossequio a quel senso di responsabilità che mai come in questo periodo ha assunto il ruolo di protagonista sin dall’inizio della pandemia, la soluzione auspicabile è quella di un accordo tra i genitori che, con equilibrio, nel rispetto della bigenitorialità e delle norme connesse all’emergenza epidemiologica, nell’interesse primario dei figli, favorisca sia la continuità del rapporto genitore/figli, sia la riduzione di rischi con limitazioni di frequenti trasferimenti, adottando soluzioni più pratiche e/o più opportune. (Si pensi ad esempio ad accorpare più giorni di permanenza dei figli presso ciascun genitore, ovvero, incentivare videochiamata e/o chiamata attraverso skype con i figli anche più volte al giorno, ovvero autosospendere il proprio diritto di visita ove sussista un rischio di contagio)

Avv. Giuseppina Marotta
(Studio Legale Pignatelli Siniscalchi & Partners)

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Prescrizione bollette acqua, luce, gas

Prescrizione bollette acqua, luce, gas. La riduzione della prescrizione da 5 a 2 anni, già introdotta per le forniture elettriche e gas, si applica anche alle bollette dell’acqua che scadono dopo il 1° gennaio 2020
giustizia-www-iussit-com

PRESCRIZIONE
L’ Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (www.arera.it), con Comunicato stampa del 19 dicembre 2019, ha annunciato la riduzione della prescrizione delle bollette dell’acqua

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Riduzione prescrizione BOLLETTE ACQUA da 5 a 2 anni dal 1° gennaio 2020
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Riduzione prescrizione BOLLETTE LUCE da 5 a 2 anni dal 1° marzo 2018
Riduzione prescrizione BOLLETTE GAS da 5 a 2 anni dal 1° gennaio 2019
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Comunicato stampa (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente)

Acqua: dal 1° gennaio 2020 prescrizione bollette ridotta da 5 a 2 anni e premi/penalità per migliorare il servizio
Milano, 19 dicembre 2019

Dal 1° gennaio 2020 anche per le bollette dell’acqua, nei casi di rilevanti ritardi nella fatturazione del gestore, l’utente potrà eccepire la prescrizione e pagare solo gli importi fatturati relativi ai consumi più recenti di 2 anni. Inoltre, la delibera 547/2019/R/idr approvata ha stabilito anche una frequenza minima mensile delle fatturazioni, per evitare bollette troppo ravvicinate, e un meccanismo di premi e penalità che incentivi il miglioramento del servizio all’utenza e i rapporti contrattuali applicato a tutti i gestori, anche i più piccoli.

La riduzione della prescrizione da 5 a 2 anni, già introdotta per le forniture elettriche dal 1° marzo 2018 e gas dal 1° gennaio 2019, in attuazione della Legge di bilancio 2018, si applica alle bollette dell’acqua che scadono dopo il 1° gennaio 2020. […] continua a leggere >>

Fonte : www.arera.it

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Domanda processuale non presente nelle conclusioni


Cassazione 19.12.2019 n 33767 Secondo il consolidato insegnamento affinché una domanda possa ritenersi abbandonata, non è sufficiente che essa non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni ex art. 189 cpc dovendosi avere riguardo alla condotta processuale complessiva della parte antecedente a tale momento, senza che assuma invece rilevanza il contenuto delle comparse conclusionali.
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Il ctu è vincolato dalle prospettazioni delle parti


Cassazione 6.12.2019 n 31886 (a) il ctu non può indagare d'ufficio su fatti mai ritualmente allegati dalle parti; (b) il ctu non può acquisire di sua iniziativa la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione, né acquisire dalle parti o da terzi documenti che forniscano quella prova; (d) i princìpi che precedono non sono derogabili; (e) la nullità della consulenza non è sanata dall'acquiescenza delle parti ed è rilevabile d'ufficio.
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Opposizione agli atti esecutivi e le fasi dell’esecuzione immobiliare


Cassazione 30.8.2019 n 21863 (a) se il vizio procedurale è formale va fatto valere con l'opposizione agli atti esecutivi nel termine di legge; (b) se il vizio procedurale è una nullità insanabile va fatto valere impugnando ex 617 cpc, l'atto viziato; (c) conclusa la fase subprocedimentale all'interno della quale il vizio si era verificato, l'opposizione potrà essere proposta solo contro il provvedimento conclusivo della fase ex art 617 cpc.
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